Non è più un’operazione di soccorso, ma di recupero. Era questa ieri la frase più ripetuta sui media arabi e turchi. Quasi sussurrata dai corrispondenti sui luoghi del disastro lasciato dal sisma di lunedì mattina tra Siria e Turchia, dietro di loro solo macerie.

Trovare dispersi ancora in vita è ormai definito un «miracolo». Ieri però è successo, soprattutto bambini, forse perché – scriveva qualcuno – i corpi più piccoli gli permettono di incunearsi tra le macerie delle loro case.

Ma che sia sempre di più un’operazione di recupero lo dicono anche altri, in modi diversi. Lo dice il bilancio delle vittime: 2.992 in Siria, 9.057 in Turchia, per un totale di 12.049. Lo dice l’Afad, l’agenzia governativa turca per i disastri e l’emergenza, la grande monopolizzatrice degli aiuti: i corpi non identificati entro 24 ore saranno sepolti secondo le pratiche islamiche.

SARANNO ESTRATTI campioni di Dna e rilevate le impronte digitali così da dare alle vittime un nome, almeno in futuro. Saranno seppelliti nella città dove sono morti, nella speranza che i parenti siano lì vicino e possano avere almeno un posto dove piangerli.

A dirlo sono anche i racconti che arrivano dalla Siria. Al valico di Bab al-Hawa passano soltanto siriani morti in Turchia. «I convogli che transitano dal confine trasportano solo cadaveri», ha detto ad al Jazeera l’attivista Abdulkafi Alhamdo. Quel valico, chiuso dalla Turchia dopo il sisma, potrebbe però riaprirsi presto, forse già oggi.

Lo ha detto ieri Muhannad Hadi, coordinatore regionale Onu per la Siria. Non si capisce se sia una promessa o una speranza: «Forse domani riusciremo a far passare qualcosa dal confine». Sarebbero oltre cento i cadaveri rimpatriati, tutti rifugiati, secondo l’agenzia siriana Sana, tornati a casa solo da morti.

La Siria è molto più sola di quanto non lo sia la Turchia e le sue condizioni pregresse talmente disastrose che il buio in cui sopravvive da dodici anni sembra non rischiararsi mai. Ieri l’Unione europea ha fatto sapere che il governo di Damasco ha ufficialmente chiesto «assistenza attraverso il meccanismo di protezione civile». Bruxelles da parte sua «sta incoraggiando» i paesi membri a rispondere alla richiesta siriana senza però rinunciare al monitoraggio degli aiuti, dove finiscono, a chi vanno, dove.

GLI AIUTI iniziano ad apparire, almeno all’orizzonte: la Ue ha mobilitato 3,5 milioni di euro per la Siria e 3 per la Turchia. E poi ci sarà una conferenza internazionale dei donatori, ha twittato ieri la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, a marzo per mobilitare finanziamenti a favore di Ankara e Damasco.

Resta il tema sanzioni, il dilemma occidentale – sospenderle o non sospenderle – su cui ieri si è espressa la Cina chiedendo agli Stati uniti l’immediata rimozione di ogni misura restrittiva che rallenta la macchina dei soccorsi.

Che dovrebbe partire prima possibile perché le condizioni post-sisma sono insopportabili: 300mila sfollati (di cui tanti sono per la seconda, terza volta – e non sono tutti, ma solo quelli nelle zone controllate dal governo), scuole e moschee piene di persone ma che non bastano a contenerle tutte, «banchi e sedie bruciati per scaldare le aule gelide», come raccontato da Angela Kearney, rappresentante dell’Unicef in Siria.

Il copione è simile a quello della vicina Turchia: in tanti si chiedono come sia possibile che migliaia di edifici si siano letteralmente sbriciolati. In particolare i palazzi nuovi nelle zone da anni controllate dalle opposizioni jihadiste alleate della Turchia, costruiti per ospitare centinaia di migliaia i di sfollati interni, in quell’hub islamista che è ormai la provincia di Idlib.

Ad al Jazeera una risposta l’ha data Saria Bitar, ingegnere civile di Idlib: sono stati tirati su in fretta, senza rispettare alcuno standard anti-sismico, anche perché di regolamenti in quella provincia non ce ne sono più. Altri palazzi, ha aggiunto, sono stati indeboliti «dai precedenti raid aerei del regime di Bashar al-Assad».

EDILIZIA fragilissima nel mirino, da una parte all’altra della frontiera. In Turchia la rabbia monta. Nelle aree colpite è un via vai di parlamentari di opposizione, mentre la poca stampa libera rimasta dà voce a esperti che elencano tutte le falle di un boom speculativo dalle fondamenta di carta.

Lo dicono i numeri, messi in fila ieri dalla Bbc: dagli anni ’60 i vari governi turchi hanno periodicamente legiferato «sanatorie edilizie» per gli edifici costruiti senza seguire le normative. L’ultima risale al 2018, un’altra è appena arrivata in parlamento.

Secondo Pelin Pinar Giritlioglu, presidente dell’Unione degli ingegneri e degli architetti turchi, almeno 75mila delle strutture crollate o danneggiate nel sisma di lunedì erano state sanate con il mero pagamento di una multa. Il governo lo sa benissimo: secondo il ministero dell’urbanistica, nel 2018 oltre il 50% di 13 milioni di edifici in Turchia era stato costruito fuori da ogni regola.

MA SECONDO il presidente Erdogan non è il momento delle polemiche. Ci ha impiegato oltre 50 ore per uscire dal palazzo presidenziale di Ankara e andare tra gli sfollati. Abbracci, promesse. Se l’è presa con i post disfattisti sui social, «ora che è tempo di unità», e comunque il disastro non era evitabile. Il governo ci metterà una pezza, rimuoverà le macerie e ricostruirà le case.

Poco dopo lo stesso governo rallentava Twitter, come ha denunciato NetBlocks. Una mossa politica che ha avuto riflessi immediati sulla macchina dei soccorsi: rallentare i social, hanno lamentato in tantissimi, rallenta anche le operazioni di individuazione di dispersi ancora in vita, operazioni già limitate dai problemi di comunicazione della rete telefonica.

Ci sono zone che ancora non hanno visto arrivare nessuno: secondo l’agenzia Anf, nella provincia di Malatya il 90% dei villaggi non è stato raggiunto dai soccorsi. Perché continua a nevicare e nessuno ha riaperto le strade.

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A Istanbul altri arresti per critiche sui social

Altro arresto in Turchia per critiche sui social alla risposta governativa al sisma di lunedì. Ieri la polizia di Istanbul ha messo le manette allo scienziato politico Özgün Emre Koç con l’accusa di «incitamento all’odio e all’ostilità». In un post Koç aveva fatto appello al governo perché inviasse l’esercito a «portare via le macerie, distribuire coperte e zuppe calde» agli sfollati. Concludeva con un secco: «Non lo avete fatto, siete dei traditori». Intanto martedì la procura di Istanbul ha aperto un’inchiesta contro due giornalisti, Merdan Yanarda ed Enver Aysever, con la stessa accusa. Persone che chiedono conto del disastro e che ieri Erdogan ha bollato come «provocatori».