Cultura

Olga Grjasnowa, un corpo a corpo con l’identità all’ombra della Storia

Olga Grjasnowa, un corpo a corpo con l’identità all’ombra della StoriaRamoprimo, Identity /Art installation 2007

L'intervista Parla l’autrice dei romanzi «Dio non è timido» e «Tutti i russi amano le betulle», pubblicati da Keller. La scrittrice, nata a Baku e che da tempo vive a Berlino, sarà ospite oggi del Salone del Libro di Torino. «Dopo 23 anni che vivo in Germania e scrivo nella lingua locale è ancora strano per me considerarmi "tedesca". Anche se certamente non sono più né russa né azera. Se mai lo sono stata». «La vita è preziosa e può mutare da un momento all’altro. Sono cresciuta durante il crollo dell’Unione sovietica. E da allora mi è difficile dare qualcosa per scontato»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 15 ottobre 2021

Costretti alla fuga, spesso braccati, chiamati a rispondere con la vita del loro irrefrenabile desiderio di battersi per la libertà o minacciati dal loro divenire improvvisamente «l’altro», «il nemico», «il diverso». Ma, al tempo stesso, recalcitranti ad ogni appartenenza collettiva, ad ogni «noi» che percepiscono come troppo stretto, limitante. Travolti dalla Storia e dubbiosi sul fatto che ci sia un’identità che li può raccontare, racchiudendo la ricchezza dei loro sentimenti o celando le loro mancanze e inadeguatezze.

I personaggi creati da Olga Grjasnowa sembrano portare dentro di sé le contraddizioni più minacciose del presente e, al tempo stesso, parecchie dosi dell’antidoto più potente con cui opporvisi, a cominciare da una buona dose di ironia. Nei due romanzi che ha pubblicato presso Keller – l’editore di Rovereto che vanta uno splendido catalogo di autori e autrici centro europei -, ha descritto la sconfitta della «primavera siriana» del 2011 e il destino dei profughi verso l’Europa attraverso la storia di Amal e Hammoudi – Dio non è timido, 2020 – e la guerra civile tra armeni e azeri, e i pogrom che la annunciarono, che costrinsero migliaia di famiglie, compresa la sua, a fuggire dal Paese con gli occhi di Maša – Tutti i russi amano le betulle, 2015.

Nata a Baku, in Azerbaijan, nel 1984, in una famiglia ebrea, e stabilitasi a Berlino dopo aver vissuto in Russia, negli Stati Uniti e in Israele, Olga Grjasnowa sarà ospite oggi del Salone di Torino (ore 15,30, Sala Internazionale, con Alessandra Iadicicco) per un evento realizzato in collaborazione con Frankfurter Buchmesse, Goethe-Institut Turin e Keller.

La scrittrice Olga Grjasnowa

A partire da Maša, proseguendo con Amal e Hammoudi, ai personaggi delle sue storie sembra andare stretta ogni sorta di etichetta, vincolo o appartenenza che non si basi soltanto su affetti scelti consapevolmente. Oggi il tema dell’«identità» è ossessivamente presente nel dibattito pubblico, cosa rappresenta per lei?
Sto ancora facendo i conti fino in fondo con questa parola, specie per ciò che può significare nel contesto tedesco. In Germania, l’idea stessa di identità è legata strettamente alla nazionalità e al retaggio e non c’è scampo a tutto ciò. A volte sembra che non importi in alcun modo quello che si fa o come una persona possa evolvere o sviluppare la propria personalità nel corso del tempo, l’unica cosa che conta è la sua presunta eredità cultuale e i cliché che si porta dietro, che a volte si accompagnano a determinati privilegi e a volte a forme di discriminazione. Detto questo, è in qualche modo anche una forma di lusso il fatto di poter cercare di scappare consapevolmente dalle proprie «origini». Inoltre, torno sull’argomento, cosa significa «identità tedesca»? Dopo ventitré anni che vivo in Germania è ancora strano per me considerarmi «tedesca», non farlo dopo aver per altro trascorso in questo Paese due terzi della mia vita e aver scritto le mie storie in tedesco. Anche se certamente non sono più né russa né azera, se mai lo sono stata.

La vita dei protagonisti dei suoi romanzi è spesso sconvolta da eventi drammatici, da tragedie incombenti, la guerra, la violenza, la morte. Il suo sguardo sembra cogliere la minaccia in ciò che ci sta intorno: ma quale spazio c’è per la speranza in questo contesto?
La speranza è l’unico elemento che ci permette di vivere e di andare avanti. Senza speranza saremmo persi. La vita è preziosa e potrebbe mutare da un momento all’altro. Come ho sviluppato questo modo di guardare alle cose? Forse è legato al fatto di essere cresciuta durante il crollo dell’Unione sovietica, dopo quel periodo difficile credo sia complicato dare qualcosa per scontato, considerare che non possa mutare improvvisamente.

Il dramma che vivono Amal e Hammoudi riguarda questi due giovani come l’intero popolo siriano. Condividiamo prima le loro speranze per il cambiamento della situazione in Siria e poi il loro sforzo per sopravvivere a un viaggio estenuante per mettersi in salvo in Europa. Il romanzo lancia anche un segnale all’Occidente per dire che sostenendo le proteste contro il regime di Assad nel 2011 si sarebbero potute impedire le tragedie accadute in seguito?
Non ho una risposta precisa a questa domanda, ma temo che non facendo nulla l’«Occidente» abbia aiutato le cose a svilupparsi nel peggiore dei modi. Il romanzo si basa anche sulla letteratura tedesca dell’esilio, che contiene molte descrizioni del dramma che i rifugiati provenienti dalla Germania affrontarono cercando di fuggire dall’Europa attraverso il Mediterraneo oltre mezzo secolo fa. Sono le storie che leggiamo ancora oggi a scuola. Perciò, i quesiti che solleva il libro riguardano anche il passato della Germania, quali sono realmente le conseguenze del nostro passato e come ci rapportiamo ad esse?

Nelle ultime settimane si è parlato molto della società tedesca per la fine «dell’era Merkel». Il Paese che raccontano i vostri romanzi non ha esattamente il volto rassicurante e accogliente che viene spesso descritto: c’è violenza, razzismo, persone che vivono da sempre qui che sentono di essere percepite come «altro» dal resto della popolazione. Come stanno davvero le cose?
Sicuramente in Germania il razzismo è presente, lo è sempre stato, così come la violenza motivata dall’odio. La denazificazione del dopoguerra non ha funzionato davvero e un partito di destra, che ha almeno in parte stretti legami con i neofascisti, fa oggi – di nuovo – parte del parlamento. E in alcune zone del Paese è la formazione politica più forte. Ciò detto, ci sono però anche tante persone che si impegnano perché si operi un cambiamento nella società tedesca che, del resto, sta già cambiando ed è destinata a mutare ancor di più in conseguenza della sua demografia. Questo non significa che non ci si debba impegnare già oggi in questo processo di trasformazione, visto che al centro del dibattito politico nazionale c’è proprio il tema di come rendere più difficile l’immigrazione verso la Germania. Una situazione che mi ricorda quando i bambini che appena iniziato a giocare a nascondino, pensano di potersi nascondere dietro i palmi delle loro mani. Quanto alla sensazione di essere percepiti come «altro» dal resto della popolazione, non è nuova. Dopo la Seconda guerra mondiale la Germania ha accolto milioni di rifugiati provenienti dall’Europa orientale che malgrado fossero anch’essi tedeschi hanno dovuto affrontare il razzismo e spesso anche gravi minacce. E questo, anche se alcuni di loro erano ardenti sostenitori di Hitler. I pregiudizi, la xenofobia, il razzismo e l’antisemitismo non sono nuovi, ma sono diventati sempre più visibili nel corso degli ultimi anni. Anche il tono dei dibattiti nella società e nei media tedeschi è cambiato, ha virato notevolmente verso destra ed è diventato sempre più estremo.

In «Tutti i russi amano le betulle» racconta la fine di ciò che la città di Baku è stata a lungo: un luogo simbolo della convivenza, dove famiglie ebree, musulmane e cristiane vivevano una accanto all’altra. Della realtà di «prima» cosa ricorda?
Che Baku era una città davvero incredibile, qualcosa di molto speciale. Ma temo di diventare vittima della malinconia se ci penso troppo. Anche perché, come racconto nel libro, tutto ciò svanì improvvisamente. Ad un certo punto «le persone non avevano più un volto, degli occhi, un nome e un lavoro: erano diventati azeri, armeni, russi e georgiani. Persone che si conoscevano da una vita, dimenticavano tutto ciò che sapevano le une delle altre. Rimaneva solo la cosiddetta nazionalità».

Il vincitore del Nobel per la Letteratura, Abdulrazak Gurnah, spiega di attingere a vicende storiche sia perché ritiene che spesso la storia che conosciamo sia incompleta e si possano aggiungere nuovi elementi, sia perché attribuisce alla narrativa la capacità di non ispirarsi solo all’immaginazione dell’autore ma di raccontare anche un quadro collettivo. Lei che rapporto ha con la storia?
Nel mio lavoro sto cercando di affidarmi sempre a molte fonti storiche e mi impegno ad essere il più accurata possibile nel ricostruire i contesti di cui mi occupo. Ma, naturalmente, i miei libri non vogliono essere in alcun caso una rievocazione delle vicende descritte, il che sarebbe comunque impossibile. A volte offrono un’interpretazione diversa da un punto di vista diverso di quanto accaduto, anche se non prescindono mai del tutto dalla storia. O almeno spero che sia così.

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