Fino a pochi giorni fa, Ftx era la terza più grande piattaforma al mondo per lo scambio di criptovalute e per investimenti ad esse collegati. Fondata nel 2019 da un intraprendente ragazzo americano, Sam Bankman-Fried, classe 1992, sede alle Bahamas, in soli tre anni aveva conseguito una valutazione di 32 miliardi di dollari, a fronte di un patrimonio personale del suo magnate di 23.

UNA VERTIGINE: «Abbiamo così tanta liquidità che per noi comprare una banca d’affari come Goldman Sachs non è un problema», diceva tronfio appena qualche mese fa lo stesso Bankman-Fried, alias SBF per gli addetti ai lavori, ovvero il «cavaliere bianco» per i media mainstream.

Poi, di colpo, il crack. Tutto in dieci giorni. Dall’«abbiamo tanta liquidità» all’insolvenza è stato un attimo. Ma è un classico: anche per Lehman Brothers il rating rimase lo stesso fino al giorno del default.

I FATTI. Lo scorso 2 novembre inizia a circolare la voce che un’altra società di Bankman-Fried, la Alameda Research, avrebbe accumulato un debito di 8 miliardi di dollari «garantito» dai token Ftt emessi dalla piattaforma Ftx. Entra in scena Binance, la più grande piazza di scambio di criptovalute a livello mondiale, «rivale» di Ftx, fondata dal cinese Changpeng Zhao nel 2017.

C’è un americano e un cinese, come negli incipit di alcune barzellette. Ma qui la cosa è molto più seria. Binance, in sette giorni, mette in vendita 500 milioni di dollari di Ftt del proprio portafoglio. Gli Ftt crollano, scatta la «corsa agli sportelli» dei clienti Ftx, si materializza lo spettro dell’insolvenza.

Dopo qualche tentativo di salvare il salvabile, anche col soccorso della stessa Binance, SBF getta la spugna e avvia la sua creatura alla «bancarotta assistita». Si parla anche di un «attacco hacker», con deflussi per circa 600 milioni di dollari in token nelle ultime 24 ore.

FINE DELLA FAVOLA che aveva attirato l’attenzione e la complicità di molte personalità della politica, dello sport e dello spettacolo, tra cui Bill Clinton, Joe Biden, Toni Blair, il giocatore di football Tom Brady, la cantante Katy Perry. Un giro importante, tra Casa Bianca, Wall Street e Hollywood, che aveva fatto crescere rapidamente il capitale di credibilità di Ftx.

La garanzia, per i clienti, di trovarsi di fronte ad una realtà solida, con forti agganci nella società che conta. Convenienze reciproche. Come nel caso del presidente Biden, che da Bankman-Fried ha ricevuto per la sua campagna elettorale del 2020 5,2 milioni di dollari, la seconda donazione per ordine di grandezza dopo quella di Michael Bloomberg.

L’operazione si è ripetuta anche alle ultime elezioni di Midterm, con 39,2 milioni versati ai candidati democratici più vicini alle sue «idee». Per le presidenziali del 2024 voleva «giocarsi» addirittura una fiche di un miliardo di dollari, per «influenzare l’esito delle elezioni». Una storia americana di affari e politica.

MA L’ANTEFATTO è che Ftx aveva trasferito 10 miliardi, dei 18 raccolti dai clienti, alla consociata Alameda Research, che, a sua volta, li avrebbe utilizzati per «scommesse a rischio». 100mila creditori gabbati. Nuove monete, vecchi vizi della finanza speculativa, verrebbe da dire.

Peraltro, cos’è la «tokenizzazione» di un asset reale se non un meccanismo simile a quello dei «contratti derivati»? Quest’ultimi traggono il loro valore dal valore di un bene sottostante, proprio come i token, gettoni virtuali che vengono utilizzati anche per «rappresentare» la performance, l’aumento o la diminuzione di valore, di qualsiasi entità suscettibile di valutazione economica. Un mezzo per speculare, senza i «lacci e lacciuoli» dei mercati regolamentati e gli inconvenienti del «mercato ombra».

Ma ciò che più conta è la crescente integrazione tra finanza tradizionale, banche e universo delle criptovalute. Il motivo per cui la bancarotta di Ftx incomincia a far paura. Si teme che l’incendio non rimanga circoscritto allo spazio crypto (Bitcoin ai minimi dal 2020).

Sono sempre di più, infatti, le banche e i fondi di investimento che hanno nei propri bilanci cospicue quantità di Bitcoin e asset «tokenizzati» , così come abbondano oramai i fondi azionari, gli istituti di credito, le private equity e le venture capital con una forte esposizione ai crypto-exchange. Intrecci, correlazioni, rischi e vantaggi reciproci. Una sorta di multilateralismo della finanza.

NE É PASSATO di tempo da quando filosofi ed economisti, perfino teologi, disputavano sulla natura del denaro, chiedendosi se la moneta valesse «per ciò che è o per quello che rappresenta». Oggi non solo non ci sono più metalli preziosi a conferire validità al denaro, ma si è andati ben oltre gli stessi confini della «moneta legale» (basti pensare alla «moneta endogena» delle banche).

In questo quadro, le criptovalute sono l’ultima frontiera del denaro dematerializzato. Nate dalla suggestione di poter battere moneta in proprio, aggirando l’autorità centrale, facendo a meno di banche ed altri intermediari per le proprie transazioni, sono finite per costituire una delle tante tessere di cui si compone il mosaico finanziario globale.

Dentro il sistema, senza soggiacere ad organi di vigilanza e a regole di trasparenza. Ciò che le rende «utili» per finanziare attività illecite e per operazioni di riciclaggio. Anche per aggirare le sanzioni, come dimostra l’attualità. E adesso tutti parlano di «regolamentazione».