Era gonfia di vento sul cielo umido e scuro di novembre la prima volta che l’ho vista, la bandiera rossa sul Cremlino; come ieri l’altro, prima di essere ammainata.

Era il novembre del 1949 e quel tempestoso drappo rosso, incrociato dai proiettori, pareva sospeso sopra la città, come le stelle di granata sulle cinque torri, che si dice non fossero state spente neanche con i tedeschi alle porte di Mosca.

Nel 1949 era ancora la bandiera issata sul Reichstag a Berlino, quella della guerra più crudele, vinta con più morte e più distruzioni, le tracce del passaggio tedesco visibili in tutta la piana a ovest della capitale, macerie su macerie. E Mosca era grigia e emozionante, metà orgoglio metà Requiem dell’Achmatova, impressionante come la Moscova gelata e le foreste immense e le strade con poche macchine e molta gente, provata e cortese.

Quella volta non percepii altro che la dimensione della povertà e del dolore, ma – mi parve – legati a una identità forte.

Venti anni dopo, ancora a novembre, il Pci escludeva da sé i compagni del manifesto perché avevano detto e scritto che quel vessillo era stato troppe volte insopportabilmente issato sui tanks di invasione, sconfitte politiche consumate e negate. Nel 1956 s’erano ancora mescolati orrore e speranza, ma, finito Krusciov, questa s’era spenta.

Sull’agosto cecoslovacco quella bandiera sventolava contro tutte le sue e nostre ragioni.

Era dunque uno straccio troppe volte insozzato, quello che ieri l’altro è stato calato, e l’Urss era ormai da mesi in agonia. Perché ci ha impietrito vederlo ricadere su se stesso e sparire? Perché così insignificante è apparso il tricolore russo, per ora non adorno del suo stupido pollastro a due teste, l’aquila imperiale?

Perché questo che sventola ora non è che il simbolo di uno stato, quella lo era di una idea del mondo, delle generazioni che hanno creduto e voluto una rivoluzione che ha diviso il secolo, delle sue folgoranti libertà e dei suoi abissali errori.

Non, come si dice oggi, la bandiera dell’utopia – non sono utopia i milioni di uomini e donne che si riconoscevano ai quattro angoli della terra e la cui vita e morte nel comunismo ha avuto un senso. Questa è una realtà spessa come corpi, materia storica che ha attraversato i decenni, ben prima del 1917, dal 1848 e la Comune di Parigi.

Nel 1917 come nel 1945 a Berlino essa è parsa vincere: non era vero. Quando lo sarà, avverrà in altri modi nei quali la bandiera ammainata del Cremlino è una traccia bruciante come il suo colore.

Con le parole di Bucharin al figlio l’abbiamo veduta scendere dal pennone: «Quando guardi la bandiera del nostro paese, ricordati che è fatta anche del mio sangue».

Un popolo senza confini l’ha riposta dentro di sé con qualche pietà.

* Archivio del manifesto, 27 dicembre 1991