Non siamo aguzzini
Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di scrivere questa lettera, che potrebbe essere fraintesa e alimentare il clima di odio mediatico da cui mi sento circondata. Ma non riesco più a […]
Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di scrivere questa lettera, che potrebbe essere fraintesa e alimentare il clima di odio mediatico da cui mi sento circondata. Ma non riesco più a […]
Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di scrivere questa lettera, che potrebbe essere fraintesa e alimentare il clima di odio mediatico da cui mi sento circondata. Ma non riesco più a tacere. Per quasi quattro anni ho rifiutato di espormi, convinta che i processi vadano fatti nei luoghi deputati, ovvero nelle aule di Giustizia. Ma ora, dopo la sentenza di primo grado, sento la necessità di dire alcune cose.
Ho appreso solo dai mezzi di informazione, poiché non ero presente, che il giorno della sentenza per la morte di Stefano Cucchi, nell’aula della Corte d’Assise, alla lettura della sentenza che ha assolto gli infermieri e gli agenti di polizia penitenziaria e condannato noi medici del reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale S. Pertini per omicidio colposo, sono stati fatti gesti inaccettabili da parte dei sostenitori degli assolti, la qual cosa mi riempie di sdegno. Pur comprendendone le motivazioni, probabilmente dettate dall’essere arrivati alla fine di una gogna mediatica durata più di tre anni e in risposta alle altrettanto inaccettabili urla dei sostenitori della controparte che gridavano «assassini, assassini», credo che nessuna motivazione possa in alcun modo giustificare tale comportamento, dal quale prendo le distanze totalmente. E anche se le mie parole rischiano di essere travisate, voglio esprimere la mia solidarietà ai genitori di Stefano Cucchi, che comprensibilmente ne sono stati sconvolti.
Ma detto questo, penso che il medesimo rispetto doverosamente riservato a chi non c’è più e a coloro che lo piangono, spetti a chiunque. Anche a noi medici, ritenuti responsabili di colpa medica – e non di abbandono di incapace, l’accusa più infamante per chi svolge questa professione.
A chiunque abbia seguito veramente il processo, in aula o attraverso l’ottimo servizio di Radio Radicale – che ha pubblicato sul proprio sito l’audio di tutte le udienze, per consentire a chiunque di farsi una propria idea, senza filtri – a chi non si è limitato alle informazioni di parte divulgate in questi anni dai comuni mezzi di informazione, è assolutamente chiaro che nessuno ha abbandonato Stefano Cucchi e nessuno lo ha fatto morire per coprire chissà quali nefandezze. Per noi medici la sentenza di primo grado non è stata, come qualcuno vuol far credere, una sorta di “grazia” uscita fuori dal nulla, è stata invece il risultato di lunghi anni di dibattimento e testimonianze che hanno smentito, udienza dopo udienza, quelle accuse orribili. La sentenza ha finalmente affermato che non siamo dei mostri, dei criminali, ma ci ha ritenuto comunque responsabili di quella morte; le motivazioni, quando verranno pubblicate, ci spiegheranno quali siano le colpe addebitate a ciascuno di noi, da cui potremo difenderci nei successivi gradi di giudizio.
Ma continuare ad accusarci pubblicamente di indegnità, affermando che Stefano sia stato «rinchiuso in un ospedale lager» e «abbandonato e lasciato morire dai medici, che invece di salvargli la vita si sono voltati dall’altra parte e che non sono degni di portare il camice bianco», non è accettabile, nonostante anche in questo caso io ne comprenda le motivazioni alla base.
Mi rendo conto che è difficile accettare che lunghi anni di processo non abbiano saputo dare una risposta circa la causa di morte (le varie perizie ne hanno individuate almeno cinque, tutte diverse e in contrapposizione fra loro), né tantomeno fare luce sulle responsabilità delle «eventuali» percosse, indipendentemente dal fatto se siano state oppure no la causa della morte. Perché di fatto il processo non è riuscito a rispondere a questa domanda, ovvero se le percosse ci siano state e soprattutto da parte di chi. E invece, a questa domanda tutti ci aspettavamo una risposta.
Per mia formazione umana e professionale rigetto ogni forma di violenza, perpetrata ai danni di qualsiasi essere vivente. E solo l’idea che qualcuno abbia potuto infierire su un giovane nelle condizioni fisiche in cui si trovava Stefano Cucchi mi fa orrore.
Ho scelto la mia professione con convinzione, e allo stesso modo ho scelto di lavorare in un reparto per detenuti, certa che mi avrebbe arricchito dal punto di vista umano e professionale. E non mi sbagliavo. Nonostante tutto, nonostante quel reparto venga ancora rappresentato, a puro scopo strumentale, come un luogo di orrore, le mie motivazioni sono ancora presenti. Mi faccio forza pensando alle innumerevoli manifestazioni di stima di chi mi conosce personalmente, ma soprattutto a quelle, tutte documentate, di cui ci hanno sempre fatto dono i pazienti ricoverati, che sanno bene come lavoriamo e chi siamo a livello umano.
Aspetto con ansia le motivazioni della sentenza per conoscere quale comportamento colpevole mi venga addebitato; pur essendomi interrogata a lungo su questo, perché la morte di un paziente è sempre vissuta come una sconfitta da qualsiasi medico, non riesco a comprendere quale mia negligenza abbia potuto determinare la morte di Stefano Cucchi.
Ci si accusa ancora di aver abbandonato Cucchi perché era un detenuto, un tossicodipendente, uno spacciatore. Personalmente non chiedo mai il motivo per cui un mio paziente è detenuto, anche se a volte sono i pazienti stessi a parlarmene, perché non spetta a me giudicare la loro vita, per quello ci sono i giudici e i processi. Io e i miei colleghi non siamo carcerieri e non vogliamo essere trattati come tali. Siamo medici, dipendenti della Asl RM/B, che lavorano in un reparto nel quale vengono ricoverate persone detenute; medici che non fanno parte né del sistema carcere né dell’amministrazione penitenziaria, ma cercano solo di svolgere la propria professione in un reparto ospedaliero per molti versi “difficile”. E non ritengo giusto che tutte le disfunzioni del sistema carcerario e dei suoi regolamenti (mancato contatto con l’avvocato, mancato permesso ai genitori di vedere Stefano o parlare con noi medici, ecc.) debbano essere addebitate a chi, con quel sistema non ha nulla a che vedere.
L’aver accomunato nel medesimo processo sia coloro che erano accusati di un pestaggio ai danni di una persona privata della libertà personale, sia i medici accusati di averli coperti e avere abbandonato quella persona, ha fatto sì che quei medici, nell’immaginario collettivo, siano diventati essi stessi degli aguzzini, sui quali sono state traslate, per assurda proprietà transitiva, tutte le accuse fatte ai primi. Ma questo non è accettabile.
Spero che quanto prima, alle persone che prestano servizio presso il reparto di Medicina Protetta del Pertini venga restituita la dignità di quello che fanno ogni giorno. Vorrei che esistesse qualcuno davvero interessato a capire la verità delle cose (giornalisti, politici), che venisse a verificare personalmente chi siamo e come lavoriamo; finora tutti sono stati pronti a dare giudizi e condanne morali, senza verificare in alcun modo.
Non chiedo assoluzioni, della condanna di cui devo rispondere avrò modo di discolparmi in sede di appello. Spero soltanto che si smetta di spacciare per verità le innumerevoli falsità date per assodate in modo strumentale, nonostante siano state totalmente smentite nel corso del processo.
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