Non serve l’orrore, ma il lutto
Il carabiniere che ieri mattina a Cisterna di Latina ha ucciso le due figlie dopo aver ferito gravemente la moglie, ha compiuto un gesto distruttivo non così frequente come l’omicidio […]
Il carabiniere che ieri mattina a Cisterna di Latina ha ucciso le due figlie dopo aver ferito gravemente la moglie, ha compiuto un gesto distruttivo non così frequente come l’omicidio […]
Il carabiniere che ieri mattina a Cisterna di Latina ha ucciso le due figlie dopo aver ferito gravemente la moglie, ha compiuto un gesto distruttivo non così frequente come l’omicidio della sola compagna, ma neppure raro.
Nel 2012 un pubblicitario a Brescia ha ucciso i suoi figli, un bambino e una bambina, gettandoli dalla finestra, e dopo aver cercato, senza riuscirci, di uccidere sua moglie, si è suicidato. Nel 2016 un medico a Taranto ha ucciso moglie e figlio per uccidersi a sua volta. La stessa cosa aveva fatto un anno prima un carabiniere a Napoli. Che l’odio omicida agito contro la compagna debba necessariamente fermarsi di fronte ai figli è un’aspettativa comprensibile e spesso ciò accade. Non è, tuttavia, una regola: la furia distruttiva può oltrepassare il limite compassionevole che le assegniamo.
L’orrore con cui perlopiù reagiamo, complica la nostra elaborazione del lutto. Questo è un problema perché il dolore della perdita è l’unico sentimento costruttivo di fronte alle catastrofi che irrompono nella nostra vita. L’effetto orripilante, rizza il pelo, crea reazioni vagali, angoscia che rifugge la sofferenza. Viene dall’infrazione di una convinzione/convenzione morale, che si pretende legge della natura, secondo cui i figli siano sacri e inviolabili a prescindere dal tipo di relazione che hanno con i genitori e dalla capacità di questi ultimi di sentirsi a loro agio nella propria funzione.
È vero che la convenzione morale può fermare la mano omicida in coloro che la sentono come ultimo legame con la comunità umana, ma l’argine non è solido e a volte cede.
Gli uomini che uccidono moglie e figli non si sentono né mariti né padri, se non a livello formale, cosa che aumenta il loro senso di inadeguatezza. Sono interessati alla moglie, in cui vedono la madre, e il loro interesse per la prole è strumentale al loro rapportocon lei.
Questo li fa sentire genitori finti, abusivi e aumenta il loro senso di dipendenza e di subalternità nei confronti della figura materna. La loro è una condizione di coniuge-figlio, che cercano di camuffare con la prepotenza, e quando la partner rompe con loro possono vedere nei figli (vissuti come fratelli privilegiati che restano con lei) dei rivali odiosi che li hanno emarginati.
Perduto in questo modo il loro già molto fragile sentimento genitoriale, può capitare, quando il proprio senso della realtà non regge l’impatto della separazione, di voler estirpare dal mondo insieme alla compagna anche l’esistenza stessa della maternità, la propria origine nel mondo, l’origine della propria sterile, impotente esistenza.
Queste catastrofi esistenziali, vissute in silenzio nel mondo interno dei carnefici, prima di esplodere esternamente, sono messe in scena tragiche, fallimenti irreparabili della relazione con l’altro. Possono essere riparati solo dentro di noi, spettatori sugli spalti del teatro tragico della vita, solo se ci facciamo coinvolgere dalla consapevolezza che le nostre relazioni familiari sono sempre esposte a rotture traumatiche se trascuriamo di prenderne cura. Silenzio di rispetto nei confronti dei morti, terrore, compassione e lutto dentro di noi.
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