Le catastrofi rivelano la struttura della società in cui viviamo, come aveva già intuito lo scrittore americano Thornton Wilder nel 1928 scrivendo Il ponte di San Luis Rey, ambientato nel 1714, ai tempi del dominio spagnolo in Perù. È passato quasi un secolo dalla pubblicazione del romanzo ma ancora ci ostiniamo a etichettare immensi disastri come fenomeni naturali o incidenti imprevedibili.

LA DISTRUZIONE del ponte Francis Scott Key a Baltimora, la settimana scorsa, non aveva invece nulla di imprevedibile, di casuale, di strano: è avvenuta al crocevia di tre fenomeni ben noti: la crescita mostruosa delle navi portacontainer, il ruolo assunto dai migranti nell’economia della globalizzazione e il deterioramento delle infrastrutture negli Stati uniti, in particolare i ponti.
La Dali, il cargo protagonista della nostra storia, è lungo esattamente 300 metri, come lo stadio di San Siro moltiplicato per tre. La Fairland, la prima nave portacointainer ad attraversare l’Atlantico nel 1966, era lunga 143 metri ma già nel 1972-73 venivano costruite navi lunghe fino a 300 metri. Sembrava un limite insuperabile: le chiuse del Canale di Panama originale, attraverso cui doveva passare quasi tutto il traffico tra l’Asia e la costa orientale degli Stati uniti erano lunghe all’incirca lo stesso e navi più grandi non ci sarebbero entrate.

Ma, dato che la domanda globale di elettronica, scarpe da ginnastica, magliette e altri beni di consumo prodotti in Asia continuava a crescere, le navi giganti assumevano un ruolo centrale nell’alimentare l’economia contemporanea e la risposta fu allargare Panama e poi Suez, ampliare i porti, creare infrastrutture in grado di ricevere navi come la Msc Irina, larga 60 metri e lunga 400, che può trasportare 24.346 container, due volte e mezzo quelli a bordo della Dali. Una conseguenza quasi inevitabile del fatto che, per le compagnie di navigazione, più grande è la nave più conveniente diventa il costo di ogni viaggio. Nell’agosto scorso era entrata nel porto di Baltimora la Ever Max, anch’essa di 400 metri in grado di trasportare fino a 15.432 container .
Quante persone sono necessarie per far viaggiare questi mostri del mare? Non più di 25-30: un uomo ogni mille container circa. Sono circa un milione e mezzo i marinai nel mondo, quasi tutti provenienti da paesi dove i salari sono bassi, come l’India, l’Indonesia o le Filippine. Nel caso della Dali erano 22, tutti indiani e tutti sono ancora a bordo perché le autorità portuali non li fanno scendere: qualcuno deve badare alla nave, anche se immobilizzata dai rottami del ponte. L’armatore forse manderà un equipaggio di riserva e forse no.

La settimana scorsa le autorità di Baltimora hanno recuperato i corpi di quattro dei sei operai che sono morti mentre lavoravano a riparare le buche nell’asfalto del ponte. Erano tutti immigrati, provenienti da Messico, Guatemala, Honduras e El Salvador: Dorlian Ronial Castillo, Alejandro Hernandez Fuentes , Miguel Luna e Maynor Yessir Suazo. Mancano ancora all’appello Jose Mynor e Carlos Hernandez. Due altri lavoratori sono rimasti feriti ma non sono andati in ospedale, probabilmente perché senza documenti. Come mai sono rimasti sul ponte dopo che la nave aveva lanciato un Sos? Perché non avevano le radio con il canale di emergenza della Capitaneria di porto.

LE VITTIME erano tutte negli Stati uniti da anni: Miguel Luna, per esempio, era un saldatore di 49 anni, nato nella provincia di Usulután in Salvador, una zona devastata negli anni Ottanta dall’esercito salvadoregno sostenuto dagli Stati uniti e dalle squadracce paramilitari. Miguel e un’altra vittima del crollo, Maynor Suazo, erano membri di Casa, un’organizzazione per i diritti degli immigrati fondata nel 1986 per rafforzare la solidarietà con le persone colpite dalla violenza creata e sostenuta dall’amministrazione Reagan in America Centrale. Alejandro Hernandez Fuentes, 35 anni, messicano, e Dorlian Ronial Castillo, 26 anni, guatemalteco sono stati trovati all’interno di un camioncino della ditta di costruzioni, sommerso nel fiume. Jack Murphy, il proprietario della Brawner Builders, per cui lavoravano i sei operai, ha detto: «Questo tragico evento è stato del tutto imprevisto e non era qualcosa che potevamo immaginare che sarebbe accaduto».

IN REALTÀ, gli incidenti provocati da queste piramidi galleggianti sono tutt’altro che rari: nel marzo 2021 era stata un’altra nave lunga 400 metri, la Ever Given, a bloccare il canale di Suez per una settimana. Nell’ottobre 2011, la portacontainer Rena si era incagliata al largo della costa della Nuova Zelanda, provocando un grave disastro ambientale. La nave alla fine si era spezzata, riversando in mare centinaia di container e tonnellate di petrolio.
Nel gennaio 2007 la portacontainer Napoli, aveva subito un cedimento strutturale nel Canale della Manica. L’equipaggio abbandonò la nave, successivamente rimorchiata fino alla costa del Devon, intenzionalmente arenata sulla spiaggia per evitarne l’affondamento. L’incidente provocò la perdita di alcuni container, con conseguente inquinamento della zona. Nel dicembre 2002 la Kariba, una portacontainer registrata alle Bahamas, aveva provocato l’affondamento della Tricolor, una nave da carico battente bandiera norvegese, nel Canale della Manica, causando il blocco temporaneo di una delle rotte più trafficate al mondo.

LO SCONTRO fra la Dali e il pilone centrale del ponte non era qualcosa che si poteva immaginare? Al contrario: molti ponti sono dotati di una specie di paracarri di cemento di fronte ad ogni pilone per evitare un impatto diretto fra una nave allo sbando e la struttura: a Baltimora non c’erano. L’American Society of Civil Engineers pubblica periodicamente un rapporto sulle condizioni delle infrastrutture negli Stati uniti. Nell’edizione del 2021, i ponti considerati strutturalmente carenti, ovvero che necessitano di manutenzione, riabilitazione o sostituzione, erano oltre 42.000.
Avete letto bene: quarantaduemila. Questa volta i morti sono stati sei, la prossima?