«Ci siamo svegliati stamattina con l’invasione del campo profughi di Jenin. Con nove palestinesi uccisi. Con la notizia dell’ingresso dei militari camuffati da civili, dentro il furgone di una compagnia giordana».

Si chiama al-Juneidi, ogni market palestinese ha gli scaffali pieni di cartoni del latte, succhi di frutta, formaggio bianco con il logo in verde e blu. Baha Hilo è un attivista palestinese. Vive a Betlemme dove da anni lavora in campagne per la piantazione di olivi e nel turismo politico alternativo.

«DA FUORI quel numero, nove uccisi, può impressionare – ci dice – ma è la regolarità. Io non guardo a Jenin in modo diverso da come guardo ad altre città palestinesi, Gerusalemme, Al Ram, Hebron. Jenin è una delle più colpite, ma concentrarsi sulla storia di un’unica città definendola il cuore ribelle della Cisgiordania significa distogliere l’attenzione dall’occupazione militare che è identica ovunque. Quello che racconta Jenin è altro: l’incapacità di Israele di garantirsi una sottomissione definitiva del popolo palestinese».

È questo che fa Jenin: evoca, rende fisica l’immagine della devastazione. I paralleli con altre invasioni arrivano come un flash. La seconda Intifada è lì, a due passi.

Come allora Jenin rimane luogo di organizzazione armata, nelle vie strette del campo, quelle che nel 2002 Israele spianò passandoci in mezzo con i bulldozer: le case andavano sbriciolate per far strada ai carri armati.

«I gruppi di combattenti – continua Baha – sono sempre stati presenti, ma oggi sono più visibili. Gli ultimi raid israeliani a Jenin e a Nablus hanno avuto come giustificazione l’arresto dei combattenti. Persone che provengono da background politici diversi e che lavorano insieme per un motivo preciso: devono sostenersi a vicenda. Si nascondono, a volte anche ai propri partiti di appartenenza, Fatah in particolare. È la Palestina che unifica. Sono affiliati alla Palestina. Per questo la gente li vede come eroi: prendono le armi e rischiano la propria vita per la libertà del loro popolo».

BAHA INSISTE sullo stesso punto su cui ogni palestinese fa leva: il diritto internazionale riconosce il diritto di resistere a un’occupazione militare illegale con ogni mezzo necessario. Lo stesso dice Jamal Zakout, ex militante del Fronte democratico per la liberazione della Palestina. La prima Intifada la visse a Gaza, da dove partì una sollevazione che affascinò il mondo per terminare nella polvere.

«Dalla comunità internazionale non vogliamo che ci dica che Ben Gvir (ministro della sicurezza nazionale israeliano, ndr) è un estremista. Vogliamo che faccia rispettare il diritto internazionale e ponga fine all’occupazione. Quanto avviene a Jenin è il risultato di quel crimine originario».

Con i palestinesi non esiste un modo per fargli definire un governo israeliano. È la notte in cui tutte le mucche sono nere e a prevalere è sempre l’indifferenza. Anche verso questo esecutivo, ribattezzato dai media di tutto il mondo «il più a destra della storia di Israele», capace di far accapponare la pelle anche a leader occidentali di solito molto meno impressionabili.

«Dal 1948 in poi ogni governo israeliano si è macchiato di crimini di guerra contro il popolo palestinese – continua Baha – Ogni giorno che un governo israeliano mantiene l’occupazione della Palestina è un giorno in più di illegalità. Qui diciamo che l’ala destra e l’ala sinistra sono ali di uno stesso uccello. La differenza la notano solo i media internazionali».

«ISRAELE SENTE di avere mano libera per fare quel che vuole – dice Zakout – Non siamo rimasti stupiti. Il governo precedente ha ucciso 235 palestinesi in un solo anno. E lo chiamavano “il governo del cambiamento”. In un contesto simile pesa come un macigno la debolezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Discute di questioni di lana caprina, chi verrà dopo Abu Mazen, senza pensare a come rimettere insieme questo popolo. I palestinesi non hanno alcuna fiducia nell’Anp, per questo assumono su di sé la propria difesa: è il segno del fallimento dell’attuale leadership, incapace di immaginare una strategia popolare nazionale, l’unica che possa rispondere alle nostre aspirazioni».