«Non concederò l’estradizione di Trump dalla Florida», nel turbine seguito al rinvio a giudizio di Donald Trump, a frase è una misura del paradosso politico in cui versa l’America all’antivigilia delle prossime elezioni presidenziali. A pronunciare la frase ad effetto è Ron DeSantis, discendenza italiana per via di bisnonni campani abruzzesi e molisani, governatore della Florida e papabile candidato a rilevare proprio da Trump il mantello di paladino nazional populista nelle prossime primarie repubblicane. La sua uscita sottolinea la dimensione prettamente elettorale della vicenda giudiziaria aperta a New York e quello che implica per un Gop che non trova la chiave per uscire dal vicolo populista in cui si è infilato e da un culto personale dell’ex presidente, destinato semmai ad acuirsi ora che entrano in campo i tribunali.

DeSantis rappresenta una delle ipotesi di ricambio generazionale del partito, ma la sua parabola è anche indicativa della forza gravitazionale irresistibile che esercita la base fedele all’ex presidente, simile a quella di un buco nero al centro della politica repubblicana. Curriculum conservatore doc (capitano di squadra di baseball, Yale, Harvard Law School e ufficiale della marina), il 45enne governatore rampante è l’unico rivale in grado di contendere plausibilmente a Trump una nomination. Come gli altri sparuti pretendenti repubblicani si trova però nella difficile posizione di scendere in campo contro Trump dichiarando al contempo l’obbligatoria, assoluta lealtà ai principi del trumpismo, ed ora alla difesa ad oltranza dell’imputato Trump.  Ogni defezione dalla linea equivale a kriptonite politica e verrebbe severamente punita dagli elettori trumpisti. Come ogni altro pretendente, DeSantis è dunque obbligato professare lealtà all’uomo che vorrebbe detronizzare e ad assecondare rancori e risentimenti identitari della base, allineandosi alla corrente populista – magari in versione lievemente “ripulita” rispetto al demiurgo di Mar A Lago.

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Il governatore nasce politicamente come liberista classico, allineato ai temi storici della destra: smantellamento dello stato sociale, sgravo fiscale ad imprese (e classe imprenditoriale), taglio dei servizi pubblici, opposizione alla transizione energetica.  La sua prima campagna elettorale ha calcato molto sulle sue credenziali di reduce. DeSantis ha prestato servizio in Iraq, a Fallujah, come membro del corpo “Jag” (judge advocate general), l’unità che serve da magistratura militare della marina. È in questa veste che il promettente giovane laureato di Harvard Law viene inviato per oltre un anno a Guantanamo. A Camp X Ray il tenente DeSantis è “consulente” legale per le tecniche di interrogazione dei detenuti nel lager extragiudiziario.

Sono gli anni caldi della guerra in Iraq, quelli delle acrobazie giuridiche degli avvocati della Casa bianca di Bush per giustificare le pratiche poi riconosciute come tortura. DeSantis si rivela subito adepto nel capire l ’aria che tira. Assiste di persona all’alimentazione forzata dei detenuti ma nei rapporti la definisce giustificata perché lo sciopero della fame da parte dei «terroristi è da considerarsi un atto di jihad contro gli Stati uniti.”

Dieci anni dopo, con l’avvento di Trump dimostrerà la stessa dote per fiutare l’aria, diventando un “early adopter” del trumpismo, sostituendo l’ortodossia conservatrice con le tematiche emozionali capaci di generare ampio consenso nella base. È una lezione che successivamente metterà abbondantemente a frutto da governatore posizionandosi come paladino nazionale delle culture wars attraverso una serie di leggi di stampo maccartista che impongono l’insegnamento patriottico in scuole ed università, epurano biblioteche scolastiche, censurano tematiche “gender” e vietano la discussione del retaggio razzista del paese. Quando viene rieletto lo scorso novembre con uno scarto di 20 punti, raddoppia lo zelo definendo la Florida il «cimitero del woke.” È nella Florida di DeSantis che si giunge alla censura istituzionale del David di Michelangelo.

Dopo aver usato il governo della Florida per proiettare le proprie credenziali populiste, DeSantis si preparava a proiettare il modello su scala nazionale, avendo brevettato lo slogan “Make America Florida”.

Ora la vicenda giudiziaria di Trump lo obbliga a nuove pubbliche professioni di sostegno, mentre d’altro canto pone ancor di più la sua candidatura come alternativa “implicita” ad un candidato che potrebbe verosimilmente venire danneggiato oltre l’eleggibilità, soprattutto se al rinvio di ieri si dovessero aggiungersi le formalizzazioni degli ulteriori procedimenti penali. Intanto Trump non esiterà ad esacerbare lo scontro per inaugurare una sacra crociata contro la magistratura che incarnerà utilmente lo spauracchio della persecuzione e la solita «caccia alle streghe» promossa dallo stato profondo e dai «nemici del popolo».

Per l’America ancora non si intravede luce alla fine del tunnel trumpista.