Nell’accidentato percorso verso il decommissioning della breve ma pesante eredità nucleare italiana siamo giunti a una nuova tappa, con tutte le luci e le molte ombre del caso. Il 13 dicembre scorso il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica ha pubblicato l’elenco delle aree presenti nella proposta di Carta Nazionale delle Aree Idonee (Cnai), ovvero la mappa che individua le zone dove realizzare il deposito nazionale per lo stoccaggio in via definitiva dei rifiuti radioattivi di bassa e media attività.

ELABORATA DALLA SOGIN – LA SOCIETÀ DELLO STATO italiano responsabile dello smantellamento dei nostri impianti nucleari – sfoltita dopo la consultazione pubblica e approvata dall’Ispettorato nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione(Isin), la Cnai comprende 51 siti idonei sparsi in sei diverse regioni: dieci in Basilicata, uno in Puglia, quattro tra Basilicata e Puglia, ventuno nel Lazio, cinque in Piemonte, otto in Sardegna, due in Sicilia. Ma con una novità, approntata negli ultimi giorni dal governo Meloni, quasi a sconfessare il lavoro di Sogin: attraverso il decreto-legge «Energia», entrato in vigore il 9 dicembre, «gli enti territoriali le cui aree non sono presenti nella proposta di Cnai possono presentare la propria autocandidatura». Un’idea paventata mesi fa dal ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che con l’introduzione di questo binario parallelo forza l’impasse e stravolge il percorso fatto finora.

L’UNICO A FARSI AVANTI È STATO, finora, il sindaco di Trino Vercellese, Daniele Pane di Fratelli d’Italia: «Se nessun territorio darà la sua disponibilità credo si debbano rivalutare le aree come la nostra», ha detto incurante dell’esclusione per motivi tecnici (una falda superficiale quasi affiorante e la presenza di faglie) del suo comune anche dalla precedente Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (Cnapi). Trino – terra di risaie a due passi dal Monferrato – è sede della prima centrale nucleare italiana ed è collocata in una porzione di territorio che, se contiamo anche Saluggia, ospita la maggior parte dei rifiuti radioattivi italiani in zone considerate non idonee, in quanto alluvionabili.

SULLA NUOVA POSSIBILITÀ INTRODOTTA DAL GOVERNO è negativo il giudizio di Legambiente: «Sulle autocandidature si sta compiendo un assurdo pasticcio all’italiana. È fondamentale attenersi al percorso scientifico individuato fino ad ora. Il deposito nazionale serve ed è urgente per le scorie a media e bassa attività, mentre per quelle ad alta si deve lavorare a livello comunitario per individuare un deposito geologico idoneo e il più possibile sicuro». Le autocandidature innescherebbero un percorso poco rigoroso e meno attento alla sicurezza dei cittadini, esente dalla consultazione pubblica e che finirebbe per allungare inevitabilmente i tempi. «Ma perché mai – si domanda Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – i territori di questi comuni, se prima non soddisfacevano gli stringenti requisiti richiesti in fase di valutazione, ora invece potrebbero essere ritenuti idonei a ospitare il deposito nazionale?».

LA PROCEDURA DI IDENTIFICAZIONE del deposito nazionale con annesso parco tecnologico (che comprenderà un centro di ricerca) è regolamentata dal decreto legislativo 31 del 2010 e ha subito continui rinvii, tanto che la Cnapi è stata pubblicata solo nel gennaio del 2021 – con 67 aree in sette regioni italiane – in base ai criteri della guida tecnica 29 di Ispra (no a zone sismiche, alluvionali o densamente popolate) fissati nel 2014. Ai ritardi è corrisposto un lievitare delle spese. «I costi associati ad ogni anno di ritardo nelle attività di decommissioning sono stimati tra 8 e 10 milioni di euro per sito» da smantellare, riportano gli atti della commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, tenutasi nella scorsa legislatura.

ORA SIAMO ARRIVATI ALLA CNAI, LA MAPPA delle aree idonee alla cui pubblicazione ha risposto una levata di scudi univoca da parte dei comuni individuati. Nello specifico, partendo da Nord, in Piemonte le aree sono tutte in provincia di Alessandria, indicativamente tra il capoluogo e Novi Ligure; la Provincia con il presidente Enrico Bussalino si dice fermamente contraria perché «il nostro territorio ha già dato tanto in termini di ambiente, dalla vicenda Eternit all’Ecolibarna».

NEL LAZIO, I SITI – IL 40% DEL TOTALE DELLA CNAI – sono circoscritti alla provincia di Viterbo dove monta la protesta e per il Biodistretto della Via Amerina e delle Forre la misura è colma («un oltraggio a tutta la Tuscia e al suo operato pluridecennale verso uno sviluppo sostenibile»); anche la Regione con il governatore Francesco Rocca si augura «che nessun sindaco del Lazio candidi il proprio comune a ospitare il deposito». Fra Puglia e Basilicata sono coinvolti quindici siti e qui le Regioni e i sindaci, da Matera ad Altamura, sono scesi in campo contro l’ipotesi del deposito. In Sardegna, le aree sono situate tra le province di Oristano e del Sud Sardegna; il governatore Christian Solina si è richiamato all’esito del referendum consultivo del 2011: «La Sardegna ha detto no nel 2011, l’isola ha già dato tanto». In Sicilia, i siti sono nel Trapanese e per Federconsumatori «sicurezza, salute ed economia locale sono a rischio».

LA PROSSIMA FASE PREVEDE CHE GLI ENTI TERRITORIALI non presenti nella Cnai, nonché il Ministero della Difesa per le strutture militari interessate (anche questa è una novità e chissà che non emerga qualche proposta), possono entro trenta giorni dalla pubblicazione della Carta presentare la propria autocandidatura e chiedere al Ministero dell’Ambiente e alla Sogin di avviare una rivalutazione del territorio stesso, al fine di verificarne l’eventuale idoneità. Una matassa difficile da sbrogliare. Insieme a un’eredità pesante ancora da smaltire. Nonostante tutto ciò, in piena emergenza climatica il ministro Pichetto Fratin preferisce rilanciare il refrain del nucleare di quarta generazione millantando un nucleare sostenibile in tempi brevi. Ma la questione scorie, anche nel futuro, resta ambientalmente (ed economicamente) irrisolta.

IN QUESTI ANNI DI CONTINUI RINVII POLITICI e di scandali che hanno investito la Sogin, gli italiani hanno pagato il decommissioning attraverso la bolletta della luce al di là dei propri consumi individuali: circa 4 miliardi di euro, dal 2010 al 2021 tramite l’aliquota A2Rim, a cui si aggiunge l’aliquota AmtcRim che finanzia le compensazioni territoriali che ammontano a 530 milioni di euro, sempre per lo stesso periodo. Ultimamente gli oneri del nucleare sono usciti della bolletta per entrare nella fiscalità generale.

IL PERCORSO VERSO IL DEPOSITO NAZIONALE resta tortuoso: è previsto un investimento di circa 900 milioni di euro per un’area di circa 150 ettari. Saranno qui sistemati definitivamente 78 mila metri cubi di rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività, compresi quelli derivanti dai settori della medicina nucleare e dell’industria. Il Complesso stoccaggio alta attività (Csa) sarà, invece, dedicato allo stoccaggio di lungo periodo di 1 7 mila metri cubi di rifiuti a media e alta attività. L’entrata in servizio è prevista per il 2030. Una data che, però, potrebbe ancora una volta essere posticipata.