Mohammed Odeh, 48 anni, non ha più un tetto. Lui, moglie e cinque figli, andranno a casa della suocera per qualche giorno. «Conto di montare una tenda accanto alle macerie di casa, non ce ne andiamo, qui c’è la terra comprata dal nonno, passata a mio padre e che ho ricevuto in eredità», ci dice ricevendoci nel suo negozio di ferramenta nella parte bassa di Silwan, quartiere ai piedi delle mura antiche di Gerusalemme. Ieri mattina sono arrivati gli operai del Comune israeliano, accompagnati da agenti di polizia. Con una ruspa hanno demolito la casa degli Odeh nella zona di Silwan conosciuta come Bustan. «Mi hanno detto che dovrò pagare le spese della demolizione – aggiunge Odeh – il lavoro degli operai, la presenza dei poliziotti, l’impiego della ruspa. E una multa. Il mio avvocato pensa che il totale sarà tra 80mila e 100mila shekel (20-25 mila euro)».

Nonostante la demolizione della sua abitazione, Odeh ha aperto lo stesso il suo negozio. I clienti lo abbracciano e assicurano che parteciperanno alla raccolta di fondi per aiutarlo almeno a pagare la multa. «Cerchiamo di aiutarci tra di noi perché questo è un problema ampio che riguarda tante famiglie di Bustan», prosegue il racconto mentre ci prepara un caffè. «Sono 135 le case palestinesi che gli israeliani considerano abusive. Molte lo sono, ma il comune non rilascia permessi edilizi ai palestinesi di Wadi Hilweh (Silwan, ndr). Non sappiamo come fare per dare una casa ai nostri figli, viviamo in pochi metri quadrati da decenni. Per questo siamo costretti a costruire illegalmente. Ai coloni israeliani giunti qui invece è concesso tutto». Ci mostra una copia digitale del piano regolatore del Comune: le abitazioni all’interno in due piccoli settori di colore giallo resteranno dove sono, tutte le altre dentro un ampio spazio di colore verde sono «illegali» e verranno abbattute. Il problema non è l’abusivismo ma la politica, afferma Odeh, «gli israeliani vogliono cacciarci via, distruggere le nostre case arabe e ultimare il loro parco archeologico».

Si riferisce alla Città di Davide e vari progetti «archeologici» avviati da Ataret Cohanim, Elad e altre organizzazioni e società «immobiliari» legate ai coloni israeliani che godono del via libera delle autorità comunali e statali. Il fine è continuare a cercare prove della presenza di Re Davide a Silwan dove il personaggio biblico avrebbe vissuto e governato. Una presenza che non è mai stata accertata storicamente, anche studiosi ebrei israeliani dubitano che Re Davide sia mai stato a Gerusalemme o esistito. «I coloni vogliono proseguire gli scavi, anche se questo potrà avvenire solo con l’abbattimento delle nostre case. Da quando c’è un governo (israeliano) tanto vicino alle loro idee, provano ad accelerare le demolizioni» ci spiega Marwan T., proprietario di una delle case a rischio.

Mohammed Odeh ci porta alla sua abitazione. Ora è solo un cumulo di pietre, lamiere contorte e tubi piegati. Percorriamo un labirinto di vicoli. «Le nostre sono stradine strette perché da quando Israele ha occupato questa parte di Gerusalemme (la zona palestinese, nel 1967, ndr) Wadi Hilwe non ha mai potuto svilupparsi. Le case sono cresciute quasi attaccate», ci dice. Dal terrazzo accanto alla sua casa distrutta si può osservare l’ampio scavo in corso. In alto si intravede, come se fosse appoggiata sulle mura antiche, una delle cupole della Spianata di Al Aqsa. Centinaia di metri più avanti c’è Batn al Hawa, un sobborgo che secondo gli ultranazionalisti israeliani si troverebbe sul sito di un villaggio costruito alla fine del XIX secolo per ospitare ebrei yemeniti evacuati dai britannici negli anni ‘30. Una legge del 1970 consente ai cittadini ebrei il diritto di reclamare senza limiti di tempo proprietà a Gerusalemme Est. Non è lo stesso per i residenti palestinesi con le proprietà arabe confiscate dallo Stato di Israele dopo la sua nascita nel 1948. A Batn al Hawa 20 edifici palestinesi attendono l’arrivo delle ruspe.

Prima di salutarci Mohammed Odeh accede la tv nel suo negozio. Scorrono le immagini di Gaza distrutta, di bambini che fanno la fila per riempire di acqua le taniche, della nuvola di polvere e detriti che alzano le esplosioni delle bombe. E quelle delle Forze armate israeliane entrate di nuovo a Jenin dove ieri hanno ucciso cinque palestinesi. Altri quattro sono stati colpiti a morte nella notte tra lunedì e martedì ad Aqaba (Tubas). Due a Kufr Qud. 11 uccisi in Cisgiordania in meno di 24 ore, oltre 600 dal 7 ottobre. La maggior parte erano combattenti, ma tanti solo giovani che lanciavano pietre e civili non coinvolti. Un palestinese del campo profughi di Dheisheh (Betlemme) ha ferito con un cacciavite una agente della polizia israeliana ed è stato ucciso sul posto.