«Nomadlands», sulle strade di un’America resistente
Cinema Vincitore di tre Oscar, il film di Chloe Zhao sarà in sala il 30 aprile. La storia di una donna che vive in un camper e si sposta nel paesaggio americano oltre a regia e film, ha conquistato la statuetta per la migliore protagonista, Frances McDormand
Cinema Vincitore di tre Oscar, il film di Chloe Zhao sarà in sala il 30 aprile. La storia di una donna che vive in un camper e si sposta nel paesaggio americano oltre a regia e film, ha conquistato la statuetta per la migliore protagonista, Frances McDormand
Agli Oscar Chloe Zhao ha raccontato un gioco che lei e il padre facevano quando era bambina in Cina, quello cioè di ricordarsi poesie e testi classici per recitarli insieme. Uno in particolare, ha detto, le è ancora molto caro, e dice: « Le persona alla nascita sono tutte buone».
Sembrerebbe quasi una risposta agli attacchi arrivati dalla Cina nei suoi confronti per passate dichiarazioni critiche sul governo cinese, al punto da «oscurare» il suo film e di bloccare la trasmissione in diretta degli Oscar. Quello che rimane però, nella sua presenza delicata con treccine sul palco, è un risultato storico – purtroppo verrebbe da dire visto che Chloe Zhao in 93 edizioni di Oscar è la seconda regista donna a vincere, dopo Bigelow, la stauetta per la migliore regia. E naturalmente il film, Nomadland, che infine, sette mesi dopo il Leone d’oro alla Mostra di Venezia, arriva nelle sale nuovamente riaperte.
Anche sul Lido (come a Los Angeles) si era capito subito che avrebbe vinto – e nel mezzo ci sono stati tantissimi altri premi importanti – era stato l’ultimo del concorso, molto atteso dopo il successo del precedente The Rider ( Il sogno di un cowboy) che ha «lanciato» Zhao nell’universo Marvel alla regia di The Eternals.
Convincendo al tempo stesso Frances McDormand che era lei la persona giusta per il suo progetto da produttrice, condiviso insieme a Peter Spears (Chiamami col tuo nome) e ispirato al libro-inchiesta della giornalista americana Jessica Bruder, Nomadland. Surviving America in the Twenty-First Century (in Italia edito da Clichy).
MCDORMAND del film è anche la protagonista assoluta, magnifica con la sua aura di performer (la statuetta alla sua interpretazione è perfetta) capace di entrare nei mondi che abita, di sostenere la macchina da presa sui segni del volto senza trucco, le rughe, il sorriso, i momenti di tristezza; di entrare nell’inquadratura in una distanza narrativa senza artifici, con empatia e sensibilità.
Oltre la memoria d’infanzia, le storie narrate dalla regista, che ha studiato in Inghilterra e a New York, non hanno mai (almeno finora) guardato alla Cina ma sin dal film d’esordio, Songs My Brothers Thaugh Me (2015) hanno esplorato i grandi spazi del suo paese d’adozione, il paesaggio del mito americano nel suo orizzonte la cui linea è quella dei grandi narratori, delle ballate e dei loro eroi silenziosi.
In «Le canzoni che i miei fratelli mi hanno insegnato» erano le Badlands del sud Dakota, dove nella riserva di Pine Ridge vivono i due protagonisti, Johnny che vuole lasciare quel mondo, e la sua sorellina che lo adora, figli di una settima generazione di Sioux Lakota che cerca solo una via di fuga.
Nomadland è un altro un racconto americano in cui l’elemento letterario del viaggio «on the road» si unisce alla realtà del Paese oggi, un sistema economico e sociale brutale fatto di disparità sempre più grandi, dove «la strada» intesa non come miseria ma scelta di vita può diventare di nuovo un gesto di ribellione.
Fren (McDormand) vive su un camper. È una lavoratrice stagionale, e si sposta come tanti altri secondo i bisogni del lavoro su una carta geografica dell’America riscritta secondo questo calendario – amazon, la raccolta delle barbabietole, il camping delle vacanze.
Non è sempre stato così, è successo con la morte del marito anni prima e soprattutto con la fine della miniera che aveva decretato anche quella della loro città, Empire, svuotata dalla recessione del 2008 mentre loro perdevano lavoro e casa. Lei aveva fatto un po’ di tutto, le era capitato anche di insegnare, cinque anni in una scuola, una sua allieva la riconosce, le chiede se è vero che come dice la madre ora è «Homeless».
E POI? «Spiegare» non interessa Zhao, pure se le motivazioni del suo personaggio ci arrivano con chiarezza. È più al suo universo che orienta lo sguardo da regista provando a coglierne il movimento in profondità, oltre spiegazioni che sono evidenti, e che, appunto, rimandano spesso alle economie.
A guidare il viaggio sono piuttosto i sentimenti che nascono e si scoprono anche durante le riprese, durate sei mesi, con attori non professionisti e «veri» nomadi – Linda May, Bob Wells, Swankie che non sappiamo mai perché è lì ma conosciamo invece la gioia dei suoi ricordi, dei vissuti nella natura, dell’esplosione di voli di rondine intorno a lei che – dice – «Dopo avrei potuto morire».
È anche qui il paesaggio che la regista ama e di cui restituisce coglie fisicità e dolcezza che intreccia alle vite mai facili della sua storia, stavolta l’ovest della frontiera e della leggenda che per i «nomadi» del presente disegna lo spazio di un «altrove» in cui ha valore ancora lo scambio, riciclare, inventare, e che oppone al destino di emarginazione disperata la possibilità di qualche istante di gioia.
In solitudine e in comunità, quella che si ritrova intorno a Bob Wells – autore di How to Live in a Car, in a Van or Rv – un po’ un guru la cui filosofia è rifiutare quanto è stato previsto per tutti: alla precarietà di casa, famiglia lavoro – che sono in bilico quasi esattamente come la loro condizione – si oppone la solidità delle rocce che collezionano nel loro spostarsi giovani, meno giovani, anziani, il cui riferimento esistenziale vuole essere diverso da quello del successo.
Nomadland è una ballata contemporanea, ci dice il mondo in cui viviamo, le lotte che lo attraversano, ci mostra le sue «zone resilienti» – malgrado tutto – di cui c’è molto bisogno.
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