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Noi, un palestinese e un israeliano che si battono per la stessa pace

Noi, un palestinese e un israeliano che si battono per la stessa paceCombatants for Peace

A due voci Suleiman e Elie, dalle armi a «Combatants for peace»

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 7 marzo 2024

Abbiamo incontrato Suleiman Khatib e Elie Avidor, attivisti di “Combatants for Peace” che dal 7 al 10 marzo saranno in Italia, ospiti di “Circonomia” per partecipare al Festival della transizione ecologica che si terrà a Fano dal 7 al 10 marzo prossimi.

Raccontateci brevemente chi siete e comei introdurre il lavoro di “Combatants for Peace” (CfP).

Suleiman Khatib: Sono uno dei fondatori di CfP. Sono nato e cresciuto a Hizma nell’area di Gerusalemme, mi sono avvicinato alla politica quando avevo 15 anni prendendo parte attivamente alla lotta armata durante l’Intifada. Per questo ho passato più di 10 anni in carcere, dove ho iniziato a studiare la storia e imparato a conoscere Gandhi e Mandela, a ragionare in modo diverso sul mondo e sui conflitti e a conoscere la forza della non violenza che da allora ho deciso di seguire come strategia per la liberazione dei nostri popoli, dei palestinesi e degli israeliani.

CfP è un movimento binazionale in cui palestinesi e israeliani collaborano per mettere fine all’occupazione e per raggiungere pace e libertà per tutti. Oltre che sulla non violenza, il nostro lavoro si incentra sulle nostre storie personali. CfP è stato fondato da persone che hanno combattuto: durante la Seconda Intifada, come me molti palestinesi sono stati in carcere. E molti israeliani sono stati nell’esercito. Il nostro è un movimento creato da persone che hanno vissuto sui loro corpi queste esperienze, che sanno che la guerra e la violenza non sono la risposta e non sono la soluzione. È stato creato nel 2006 e da allora nel tempo si è allargato.

Elie Avidor: Sono cresciuto a Haifa, nei primi anni dalla fondazione di Israele quando tutto ruotava intorno al “noi contro tutti”, gli arabi ci avrebbero invasi e avrebbero distrutto lo Stato appena fondato. Ci sono state le guerre del ’48, ’56, ’67, ’73, una ogni dieci anni. Entrare nell’esercito era un fatto scontato. Nella guerra dello Yom Kippur ho combattuto sulle alture del Golan. Poi sono stato a lungo negli USA, ma ho sempre voluto tornare in Israele perché sentivo un legame molto forte.

Una volta tornato, ho sentito parlare di della cerimonia in cui famiglie israeliane e palestinesi nel giorno dedicato alla commemorazione dei soldati caduti condividono il lutto per i caduti di entrambe le parti, una cosa molto difficile da capire per gli israeliani. Da allora ho partecipato ogni anno, ascoltando le storie di dolore, capendo che il dolore è condiviso, che tutti soffriamo e che tutti siamo parte di questo gioco. Ma manca il dialogo e la comprensione reciproca.

Così ho deciso di entrare a far parte di CfP. Attualmente passo la maggior parte del mio tempo aiutando i pastori palestinesi a difendersi dalle vessazioni dei coloni, dell’esercito e dei gruppi paramilitari. Stando insieme a loro, ascolto la loro narrazione e gli racconto della mia, parliamo invece di combattere.

Come siete riusciti ad affrontare il 7 ottobre e quello che è successo dopo?

S.K.: Molto del nostro lavoro è incentrato sullo stabilire relazioni tra noi. Fin dall’inizio si è creato un forte legame reciproco basato su una profonda comprensione delle rispettive realtà. Ci aspettavamo una crisi.  Sappiamo che il cammino per arrivare alla pace e alla libertà attraverso la non violenza è lungo. Abbiamo fatto del nostro meglio per tenere insieme la nostra comunità mostrando empatia per la sofferenza delle persone da entrambe le parti. Alcuni noi sono stati colpiti anche in modo diretto. Normalmente in periodi come questi, le persone ritornano nelle loro rispettive tribù come risposta al trauma, ai traumi subiti attraverso le generazioni.  Non è una scelta semplice. Sono molto fiero di poter dire che siamo riusciti a tenere insieme il nostro movimento, nonostante molte sfide.

Non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto di continuare a parlarci. Non facciamo a gara tra chi soffre di più. Non vogliamo essere parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza, mantenere un equilibrio e penso che la voce per la pace sia stata chiara e forte, magari si sente piccola e sola, ma penso sia l’unica che porta speranza riconoscendo la sacralità di ogni vita. In questa situazione di emergenza siamo stati anche molto criticati. La narrazione corrente è “noi o loro”. CfP è riuscito a mantenere la sua nuova narrazione del “noi e loro insieme”. Non nascondiamo i nostri sentimenti né alle nostre comunità né tra noi. Io sono palestinese, nel nostro movimento c’è anche un palestinese di Gaza. Questo non chiude il nostro cuore all’empatia nei confronti delle vittime israeliane. Per noi l’occupazione non legittima nuocere a civili come è successo il 7 ottobre. E le atrocità commesse da Hamas non legittimano la reazione di Israele con gli attacchi aerei e con quello che sta succedendo ora.

Ora agiscono le forze della guerra e dell’oscurità che vogliono prendersi la nostra regione e tutto il Medio Oriente, continuare la guerra, l’occupazione e l’assenza di speranza. Ma ci sono anche forze come il nostro movimento. Collaboriamo con molti altri gruppi che non vedono un senso nel ritorno alla “soluzione” militare.

E.A.: L’idea di CfP è di costruire comunità. In questi 17 anni le relazioni sono diventate così personali, forti e anche intime, da renderci resilienti. Nessuna minaccia da politici, eserciti o generali può spezzare il legame tra noi. Abbiamo già vissuto guerre in passato. Questa volta però è molto peggio di quanto sia mai stato, è un disastro.

C’è anche chi ha tratto vantaggio dalla guerra. In particolare in Cisgiordania, quello che vogliono i coloni è l’Armageddon, il giorno in cui saranno in grado di scacciare tutti i palestinesi. Aspettavano solo il momento e ora pensano che sia arrivato. Possono essere estremamente violenti. Alcuni di loro sono riservisti nell’esercito, altri hanno formato unità di difesa degli insediamenti, prima giravano con le pistole, ora portano fucili e mitragliatrici e li usano per mettere paura ai palestinesi. Nella settimana del 7 ottobre ho pensato che fosse ancora più importante essere presente. La gente mi diceva che ero pazzo ad andare nei territori occupati, ma per me era proprio questo il momento di esserci e di difendere le comunità. Dormiamo lì, andiamo in giro con i pastori. 16 comunità hanno subito gravi violenze e, dove siamo presenti, riusciamo a evitare che siano cacciati dal loro territorio. Non siamo solo al fianco delle persone che difendiamo, facciamo vedere al Paese quello che stiamo facendo. Abbiamo organizzato manifestazioni insieme nei territori occupati, come palestinesi e israeliani. La polizia è impazzita. Volevano sapere dove e come, controllavano tutto, sono entrati anche a casa mia. Da un altro attivista sono arrivati alle 4 di mattina, lo hanno portato via incappucciato e ammanettato e interrogato sulla manifestazione. Ma continuiamo a fare azioni come quelle che si vedono nel documentario su CfP  “Disturbing the peace” che racconta la volontà di disturbare lo status quo e di impegnarsi per un mondo sicuro e libero dalla violenza. È stato realizzato qualche anno fa, ma è importante per spiegare il nostro lavoro e ancora attuale. Può essere un riferimento come modello per la soluzione di conflitti.

Cosa pensate delle proteste in corso in Israele? Cosa succede nei territori occupati?

E.A.: Prima della guerra ci sono state manifestazioni contro le riforme del sistema giuridico che il governo ha tentava di fare, ma non c’era un nesso con l’occupazione. Noi insistevamo che era necessario perché l’occupazione è la causa di tutto il male. Le pratiche che il governo porta avanti in Cisgiordania, di fatto sono state trasferite in Israele. Volevano trasformaci in una dittatura, come sotto occupazione, avevamo la sensazione che stavamo perdendo il Paese. Io stesso ho cambiato idea su molte cose. I fondatori di CfP parlavano di obiezione di coscienza. Io non ci credevo perché pensavo che Israele avesse bisogno di un esercito. Ora penso che va bene anche l’obiezione totale di coscienza, il rifiuto completo del servizio militare, non solo nei territori occupati. Oppure l’obiezione fiscale, perché i soldi pubblici vengono usati male, anche per gli ultra-religiosi, mentre nulla viene fatto per la gente normale.

Dopo la guerra dello Yom Kippur eravamo in ginocchio e così è stato fatto un accordo di pace con l’Egitto. Spero che questa situazione disastrosa porterà entrambe le parti, anche gli israeliani, ad avere la capacità di parlare con l’altra parte.

Per molto tempo dopo l’inizio dell’attuale guerra nessuno ha manifestato. Ora abbiamo iniziato di nuovo. Molte manifestazioni sono per gli ostaggi. Noi continuiamo a scendere in piazza contro l’occupazione, a sollevare il problema. Ultimamente la polizia è stata estremamente violenta. Non sappiamo dove andremo a finire, ma la gente è così arrabbiata che dovrà esserci un cambiamento. E per quanto possiamo manifestare, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno. Il Paese è diviso, molti israeliani hanno paura dei palestinesi e non vogliono neanche sentir parlare di una loro indipendenza.

S.K.: Penso che tutto sia collegato. C’è un sistema che controlla la terra, dal fiume al mare governa la stessa mentalità, lo stesso sistema, un sistema di Apartheid. Viviamo nello stesso Paese con diversi diritti. E chi vive nell’area “C”, quindi sotto occupazione piena, non ha alcun diritto. Questo è il punto a cui siamo arrivati ora e non può essere nascosto. Ora è il momento di un cambiamento politico vero e noi chiediamo questo. A breve termine servono ovviamente gli aiuti umanitari, ma in prospettiva serve una soluzione politica. Così non funziona, non è possibile tenere a lungo la gente in silenzio e sotto occupazione. Dobbiamo trovare un modo di vivere gli uni con gli altri. E penso che sia possibile. Guarda la situazione del Sudafrica o dell’Irlanda. Anche lì la gente combatteva e ora sono al governo. Serve un cambiamento politico, altrimenti le cose possono andare fuori controllo come vediamo ora, il pericolo di una guerra regionale è alle porte e la dobbiamo prevenire perché le generazioni a venire abbiano un futuro.

Vedete alternative?

S.K.: Non siamo analisti o commentatori politici. Non siamo un partito. Siamo un movimento di base e lavoriamo per un cambiamento dal basso. Viviamo la realtà dall’interno e far cambiare idea alle persone può cambiare il discorso politico. Si parla di diversi scenari per quello che viene chiamato “il giorno dopo”. Per la parte palestinese per esempio ci sarebbe Marwan Barghouti. Ma non voglio parlare di qualche persona in particolare. Se c’è la volontà c’è anche il modo. Bisogna arrivare a una soluzione politica a lungo termine. Penso che la maggior parte della nostra gente voglia vivere nella libertà. Ci sono movimenti estremisti da entrambe le parti. Dobbiamo continuare a portare speranza proponendo un modello alternativo a questa radicalizzazione. E necessario, perché le persone che sono nate e che vivono all’interno di un conflitto non riescono a uscire da questa logica. Dobbiamo portare immaginazione e speranza. Il punto è se sia possibile una vita diversa e io penso di sì. La situazione ora è molto sfavorevole perché da entrambe le parti la leadership non è interessata alla pace, nella loro agenda politica c’è la guerra. Ma la mia speranza è che le persone escano fuori insieme e chiedano una soluzione politica.

E.A.: Molti hanno una grandissima paura e quindi devono essere persuasi. Qualsiasi cosa sia stata tentata negli ultimi cento anni non ha funzionato, la gente deve capirlo. E forse la sofferenza può contribuire, perché questa volta non sono stati colpiti solo soldati, ma cittadini e cittadine, e si è visto quanto siano deboli le difese e i recinti. Se i palestinesi lo volessero davvero, non so se potrebbero farla finita del tutto con Israele, ma certamente potrebbero rendere la vita delle israeliane e degli israeliani insostenibile. Sono tutte decisioni politiche. Gli ebrei hanno vissuto in Marocco per secoli e anche in altri Paesi ebrei e musulmani hanno vissuto insieme in pace. Non c’è niente nella religione che ci impedisca di vivere insieme come normali esseri umani. Sono solo i leader e i fanatici che pensano di avere la verità e hanno il potere. Difficile dire dove si andrà a finire, ma è importante non rinunciare. Possiamo essere i piccoli semi dai quali potrà crescere una comunità di pace. E se mettiamo questo insieme a pressioni politiche dall’esterno, c’è la possibilità che succeda qualcosa.

Qui in Italia e in Europa si dice che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Voi cosa ne pensate?

S.K.: In parte ho già risposto che il sistema dal fiume al mare è basato sul razzismo e sull’Apartheid. Possiamo chiamarlo come vogliamo, forse qualcuno si arrabbia, ma i fatti sono questi. Tutto cambia a seconda di chi sei e dove ti trovi. Io da qui non posso prendere un aereo e Elie invece lo può fare. Non è diverso solo per uscire dal Paese, anche all’interno ci sono differenze nella possibilità di muoversi. E questo attraversa tutta la vita. Come palestinese ho sempre vissuto sotto occupazione e con la presenza dell’esercito. Elie ha raccontato del suo rapporti con le comunità di pastori. Loro non hanno diritti mentre i coloni lì accanto hanno tutti i diritti. La loro vita è governata da uno Stato ma da un sistema razzista. Lo Stato non è per tutti i cittadini. Il problema non sono le persone, ma il sistema.

E.A.: A cosa ci riferiamo? Dal fiume al mare? Israele, Palestina, territori occupati? Penso che sia necessario fare delle distinzioni tra Israele fino alla linea verde e i territori occupati. La mia sensazione è che Israele sia una democrazia al suo interno. Possiamo fare manifestazioni, disturbiamo lo status quo e possiamo sopravvivere. Io non ho paura perché so di avere i miei diritti, di avere degli avvocati. Non ho mai avuto l’esperienza che ha avuto Souli, ma non ho paura di andare in carcere perché posso avere fiducia nella democrazia in Israele. Ma questo non vale per tutti. Per esempio la situazione dei palestinesi con nazionalità israeliana è diversa dalla mia, a loro vengono destinate anche meno risorse.

Non è una democrazia compiuta, ma è una democrazia. Però c’è il problema dei territori occupati. Israele non li chiama così, li chiama “territori contesi”. Non stanno annettendo la Cisgiordania perché hanno paura della reazione del mondo e perché probabilmente non saprebbero nemmeno che farne. Possono chiamarli come vogliono, ma chi controlla la Cisgiordania? L’esercito. Quindi è un area occupata e un’area occupata per me non è Israele. I residenti, le persone che sono nate lì, vivono sotto un sistema di regole militari e gli israeliani vivono sotto le regole israeliane. Certo che è Apartheid, l’occupazione è questo. Ci sono sistemi legali diversi per i due gruppi, coloni israeliani e residenti palestinesi. Prima abbiamo parlato di manifestazioni. Facciamo manifestazioni in Israele e andiamo in Cisgiordania a manifestare con i nostri amici palestinesi. E siccome non si tratta di una democrazia, questi nostri amici si assumono dei rischi enormi. Se li riprendono con le telecamere, per loro è finita. Non possono più avere permessi per andare a lavorare in Israele, le loro famiglie ne verranno colpite e chissà cos’altro li aspetta.

Cosa pensate del fatto che il Sudafrica abbia accusato Israele di violazione della Convenzione sul Genocidio davanti alla Corte de L’Aia? Anche l’uso della parola genocidio è molto discusso.

S.K.: CfP è un’organizzazione democratica, ci sono opinioni diverse e questo è legittimo. Il criterio che usiamo è quello della sensibilità nei confronti dei diversi componenti del gruppo. Ne abbiamo parlato al nostro interno e abbiamo fatto una dichiarazione insieme a diverse organizzazioni per i diritti umani, chiedendo un’indagine indipendente. La nostra posizione sostanzialmente è questa. Vogliamo aiutare chi ora a Gaza sta subendo un massacro e soffre la fame, più che avere dispute intellettuali. Questo non mi interessa perché ci sono persone che hanno famiglie a Gaza che hanno fame nel vero senso della parola. C’è chi sta cercando di trovare i soldi per scappare in Egitto e questa situazione aggiunge traumi che dureranno per generazioni ed è per questo che voglio spingere per una soluzione, per la pace e per un vero cambiamento. Vogliamo un’indagine internazionale sui crimini di guerra che stanno avendo luogo proprio ora, mentre parliamo.

Approviamo ogni mezzo non violento che possa portare a un cambiamento e abbiamo fiducia che questa pressione possa far ragionare le parti. Le sanzioni sono una cosa importante. Anche nei confronti del movimento dei coloni e degli estremisti. Così come ci sono nei confronti dell’ANP o di Hamas. Cosa fanno nei confronti dell’altra parte? Vogliamo un movimento internazionale che faccia pressione, metta in campo la diplomazia e ogni mezzo di lotta non violenta per fermare questa follia e la tragedia che è in corso a Gaza. C’è un’intera comunità vittima della politica a livello globale. Non si tratta solo dei palestinesi, quello che ora sta avvenendo sotto i nostri occhi ci riguarda come esseri umani e tutti stanno in silenzio. Questo è vergognoso. Dobbiamo fermare tutto questo e mandare un messaggio forte e opporci a prescindere da chi e dove siamo. La Corte Internazionale può mandare un messaggio a tutti, gruppi o governi, che non si possono violare i diritti umani.

E.A.: In tribunale affronti questioni legali. Cosa è un genocidio? Quante persone devono morire perché si possa parlare di genocidio? Nel genocidio degli armeni è morto il 60 o 70% della popolazione armena, nel Darfur sono morte centinaia di migliaia di persone, milioni di persone in Ruanda. Non servono paragoni e non voglio discutere se Israele stia commettendo un genocidio o meno. Prima di tutto dobbiamo prendere atto del fatto che questa guerra è fuori da ogni proporzione. Non so se sia genocidio, ma so che è una cosa completamente diversa da quello che abbiamo visto nelle guerre che si sono succedute in 70 anni di conflitto. Qualcuno ha scritto: dopo la guerra che tipo di Paese sarà quello che ha ucciso 30.000 persone? Ci piace definirci etici, il popolo del libro… Abbiamo ucciso 30.000 persone! Forse è la definizione giusta o forse non arriva al livello di un genocidio, ma è così terribile da andare oltre qualsiasi pensiero ragionevole. Non serve discutere sul L’Aia, ma lottare per una soluzione. Dobbiamo fermare chi ha causato questa situazione.

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