In occasione del ventennale degli attentati alle base del contingente militare italiano a Nassirya abbiamo intervistato l’ex maresciallo ordinario dei carabinieri Riccardo Saccottelli, ora in congedo, che il 20 novembre del 2003 si trovava di guardia all’ingresso del campo. Saccottelli è da subito stato molto critico con la gestione degli ufficiali che si trovavano al comando in Iraq e ha intrapreso, dopo essere rientrato in Italia, una serie di azioni legali contro l’esercito e contro i graduati che erano responsabili della base. Attualmente è coinvolto in un processo civile contro l’ex generale Bruno Stano che la Corte di Cassazione ha condannato definitivamente al risarcimento in quanto «sottovalutò rischi e allarmi» prima dell’attentato.

Riccardo Saccottelli, sopravvissuto all'attentato di Nassiriya
Riccardo Saccottelli, sopravvissuto all’attentato di Nassiriya

Come si sente oggi, ripensando a questo anniversario, alle commemorazioni, a questi vent’anni della sua storia personale?
Commemorazione di cosa? Io non sono stato invitato da nessuna parte, né io né gli altri feriti. Sicuramente ci saranno dei discorsi, forse, ancora, passerelle di politici e ufficiali; ma nessuno ha pensato a noi che eravamo lì, a noi che siamo rimasti feriti, invalidi e quanti sono morti perché il governo italiano aveva deciso che dovevamo essere lì. Io l’attentato lo rivivo ogni giorno nei momenti in cui i ricordi di quelle ore mi vengono a trovare, sia nella mia vita quotidiana, sia nei miei incubi. Quindi se la commemorazione è quella per me è un fatto esistenziale, non dipende dalle cerimonie ufficiali. E poi, ripeto, di noi non se n’è ricordato nessuno. Ancora meno se ne possono ricordare quelli che ci hanno mandati lì, perché erano loro al governo quando ci hanno mandati in Iraq.

A chi si riferisce?
A La Russa e Crosetto che erano ministro della Difesa e sottosegretario quando è stata decisa la missione. Ma in un certo senso li capisco, non ci invitano alla cerimonia perché i morti non parlano e le vedove non ne sanno nulla. O meglio, per loro l’unico problema sembra essere l’assegnazione della Medaglia d’oro al valore militare. Non si sono mai poste il problema di andare fino in fondo nel capire cosa fosse realmente successo, trovare la verità o, come si dice in questi casi, giustizia. E invece per quello che mi riguarda bisognerebbe ricordare agli italiani il famoso lodo «Salva Generali» inserito la notte di Capodanno nella finanziaria del 2009, ovvero quando si è deciso che i tribunali militari, per procedere contro un soldato o un ufficiale, dovevano avere il via libera del ministero della Difesa. Che guarda caso non è mai arrivato. Mi sembra una decisione evidentemente incostituzionale. Tra le conseguenze immediate di questa misura c’è stata l’allungamento dei tempi processuali con lo scopo evidente di arrivare alla prescrizione. Tant’è vero che poi l’azione penale è arrivata sotto la prescrizione. Il secondo effetto è che, incredibilmente, questo provvedimento che veniva dalla Difesa viene sconfessato dallo stesso La Russa, che era titolare di quel ministero, il cui sottosegretario era Crosetto. Addirittura, La Russa si mise a fare propaganda su questa vicenda dicendo che non ne sapeva nulla, che avrebbe fatto di tutto per le vittime, che avrebbe provveduto… Invece l’effetto è stato che loro hanno aiutato gli imputati e hanno tirato un calcio in culo alle vittime. Ma non credere che i politici dei partiti di sinistra si siano discostati da questo modo di fare.

Lei riscontra differenze di trattamento riservato ai sopravvissuti di Nassiriya e alle altre vittime di attentati?
Dico quanto segue con il più profondo rispetto possibile: quando il dottor Biagi è stato vittima del terrorismo la sua famiglia è stata risarcita senza indugi. Senza che i familiari della vittima abbiano dovuto subire, diciamo, la pesantezza morale del giudizio. Io sono vittima del terrorismo e non sono il solo, ma da vent’anni sono coinvolto in procedimenti dove la parte avversa cerca di fare di tutto per uscirne indenne. Ho subito persino quella che credo sia la più infima delle offese da parte dei consulenti dello Stato e di Stano. Ascoltare periti che affermavano che io non potessi essere sul luogo dell’attentato perché le mie ferite, secondo loro, non erano compatibili con un’esplosione ravvicinata di quel tipo.

Ci faccia capire meglio. Nella vita militare e a maggior ragione in una situazione come quella di una missione in un contesto bellico, ci sono ordini, circolari, registri, firme. Tutto è scritto. In che modo si può affermare che lei non fosse lì?
Certo, tutto è ricostruibile mediante le carte. Semplicemente il loro compito era darmi addosso. Lo hanno fatto e continuano a farlo, come dire, senza problemi e senza un minimo di umanità ed è curioso anche perché loro in realtà neanche potevano essere chiamati come consulenti di parte perché lavoravano per il Celio, che è la struttura militare dell’ospedale in cui io ero stato ricoverato.

Il quartier generale dei carabinieri a Nassiriya dopo l’attentato del 12 novembre 2003 foto Ansa
Il quartier generale dei carabinieri a Nassiriya dopo l’attentato del 12 novembre 2003 foto Ansa

Ad oggi non le hanno riconosciuto indennità di alcun tipo per ciò che ha subito?
All’inizio mi avevano riconosciuto la pensione privilegiata, poi mi è stata revocata senza addurre motivazioni. Non solo a me, anche ad altri sopravvissuti, anche se non a tutti. E quindi alcuni sopravvissuti di Nassiriya percepiscono la pensione privilegiata, gli assegni accessori e l’equo indennizzo e invece io e alcuni altri non percepiamo nulla.

Ma lei perché si era arruolato, perché si trovava in Iraq?
Io ero un ragazzo di 28 anni e con il senno di poi ti posso dire che ero un idiota che credeva nello stato. Credevo che con queste missioni si potesse davvero aiutare le persone nate in contesti più sfortunati del mio per una pura coincidenza del destino. Tra l’altro, da civile, ero stato missionario salesiano in Albania. Insomma, per farla breve, era la strada che avevo scelto e l’esercito per me era questo: la possibilità di aiutare con il mio lavoro laddove ce n’era bisogno.

E cosa ci può dire di quel 12 novembre del 2023?
Quella mattina siamo andati di guardia all’ingresso della base io, Daniele Ghione, Andrea Filippa, Mario Calderone, Matteo Stefanelli e Roberto Ramazzotti. Per me non erano solo colleghi, erano i ragazzi con cui io lavoravo insieme da tre anni. Ogni giorno, cioè da quando io ero arrivato al reparto a Gorizia. Erano miei amici. Comunque, di quella mattina, ho questo ricordo fisso nella testa di un bambino con il nonno. Un bambino piccolissimo. Secondo me poteva avere 2 o 3 anni e con il nonno dipingeva di color lilla il muro della casa. Di fronte alla nostra caserma c’erano sempre bambini. A un certo punto arriva un tizio protestando perché non venivano pagati gli stipendi. Quindi, come da procedura, io e Ivan Ghezzi lo identifichiamo prima di farlo entrare per fargli fare presentare la denuncia con l’interprete, che arriva poco dopo. A un certo punto sento una raffica e non sono riuscito neanche a urlare «a terra!» che siamo saltati in aria. Dopo ricordo dolori atroci sotto le braccia e qualcuno che cercava di tirarmi su. Non vedevo niente, perché non riuscivo neanche ad aprire gli occhi. Mi mancava il respiro e un suono sordo che veniva dalla mia gola, come un rantolo di chi affoga. Ho capito erano due iracheni che cercavano di alzarmi per portarmi all’ospedale. E ricordo la sensazione di aver calpestato dei cadaveri perché quando calpesti un corpo umano penso che lo ricordi molto bene. Sentivo il sapore del sangue, la sabbia incandescente sul viso, il silenzio assoluto disturbato da una specie di brusio. Cioè, capivo che mi stavano urlando nelle orecchie ma non so cosa dicessero. Arrivato all’ospedale civile ho incontrato Ramazzotti e gli ho chiesto dove fossero gli altri. Lui mi diceva «tranquillo, adesso arrivano», ma credo che in realtà già sapesse che erano morti. Poi all’ospedale militare e nelle ore seguenti ricordo che ci hanno praticamente buttato i giornalisti addosso. Perché? Per esibirci come i martiri della patria, come gli eroi, termine che detesto. Però fin da subito avevano deciso di prendersi tutto da noi. Si erano presi il corpo, il sangue, si erano presi le nostre vite.