Sono quelle del lavoro bracciantile le sei mani alzate e aperte che compongono il logo dell’associazione No Cap, nata nel 2011 per contrastare il caporalato e diffondere un modello agricolo rispettoso dei dritti umani, del benessere animale e dell’ambiente. Dei 5 milioni di stranieri residenti in Italia, il Rapporto Annuale della Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del 2023 ribadisce ancora una volta come l’impiego in agricoltura riguardi il maggior numero di attivazioni con il 39,2% del totale, mentre il Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato del Ministero del lavoro e delle politiche sociali su dati Istat afferma come esso sia anche quello con la maggiore incidenza di lavoro irregolare.

EPPURE, GRAZIE ALLA PARTECIPAZIONE di diversi soggetti e a una costante presenza sul campo, l’associazione No Cap è riuscita a mettere in pratica con successo una filiera agricola virtuosa in ogni suo segmento, recandosi sui luoghi di lavoro per capirne i problemi, sottraendo i braccianti dalle condizioni di degrado che accompagnano le raccolte stagionali e facendo da intermediaria con le aziende che si impegnano a impiegarli con regolare contratto e una paga giusta.

«NOI PUNTIAMO MOLTO SULL’INSERIMENTO lavorativo delle ex vittime di caporalato, che provengono prevalentemente dai vari ghetti del nostro Paese, zone franche di lavoro nero in cui si sviluppa il sistema illegale e lo sfruttamento dei braccianti migranti». Ce lo ha raccontato l’attivista e saggista Yvan Sagnet, presidente dell’associazione, spiegando come per sottrarre i ragazzi dalla contraddizione sociale delle periferie agricole italiane e inserirli in un circuito legale No Cap rappresenti un’alternativa concreta, che provvede a trovare l’azienda in cui andranno a lavorare, la casa e il trasporto. Una pratica che ha portato a stipulare circa mille contratti di lavoro regolare e che oggi sembra ancora più preziosa, anche di fronte alle attuali proteste degli agricoltori europei, le quali non sembrano riuscire a dissodare il terreno delle vere cause del problema agricolo, come ha ben spiegato Sagnet: «I problemi esplosi in questi giorni di protesta degli agricoltori, come anche il caporalato, non sono che gli effetti di un sistema economico che lascia il potere assoluto nelle mani della Grande Distribuzione Organizzata.

I supermercati impongono i prezzi delle materie prime, le aziende si trovano a dover vendere i propri prodotti a un prezzo troppo basso e per rientrarci sono portate a scaricare i costi sull’anello più debole della filiera, che è il lavoratore. Per questo per noi è importante anche la battaglia per la sostenibilità economica dei produttori. Chi deve decidere il prezzo di un prodotto agricolo? Chi lo compra, ossia il supermercato o chi lo produce? Il buonsenso vorrebbe che il prezzo venga deciso dal produttore, perché è lui che sa quanto ha speso, invece accade il contrario, è un sistema perverso. E questo vale per tutti i prodotti, che siano le arance in Calabria, i pomodori in Puglia o il latte che i pastori sardi gettavano via nella protesta di qualche anno fa».

NEL FARE CHIAREZZA SULLA VERA REALTA’ che sta dietro ai prodotti alimentari che ogni giorno portiamo sulle nostre tavole, Sagnet ricorda il passaggio che l’associazione ha cercato di fare dalla contestazione – quella dello sciopero di Nardò del 2011,con cui i braccianti si sono rivoltati contro il lavoro massacrante nei campi di pomodori pugliesi e di cui lui è stato uno dei protagonisti – alla proposta.

NO CAP E’ ANDATA INFATTI ANCHE a parlare con i supermercati, alcuni dei quali hanno accettato di prendere i prodotti della rete a un costo equo per chi li produce, permettendo così ai coltivatori di assumere i lavoratori regolarmente. L’associazione collabora con il gruppo Megamark, con cui è nata la linea di prodotti etici Iamme, e con i supermercati Coop, che hanno accettato di vendere la passata e i pomodori coltivati a Rignano Garganico da Prima Bio e raccolti dai braccianti di Casa Sankara e Associazione Ghetto Out di San Severo, e anche mandarini e verdure.

PER ASSICURARE la trasparenza dei prodotti e attestare l’adozione di scelte etiche sul piano del lavoro e della sostenibilità ambientale da parte delle imprese, l’associazione ha creato anche un bollino del marchio No Cap, che viene rilasciato se l’azienda soddisfa i requisiti etici e ambientali richiesti: assunzioni in linea con la normativa nazionale, sicurezza sul lavoro, accesso al servizio sanitario, uso di energie rinnovabili e di imballaggi riciclabili o biodegradabili e il rispetto della normativa biologica anche in caso ci siano animali. La cooperativa CREI, Coop Rete Etica Internazionale, si occupa di monitorare il rilascio del bollino e attraverso di essa i braccianti hanno accesso ai servizi gratuiti primari, quali le visite mediche, l’assistenza nella stipula dei contratti di lavoro, l’accesso ad alloggi e il l trasporto.

«IL BOLLINO ETICO NO CAP ci permette di coinvolgere un altro attore importante della filiera, il consumatore. Cioè, ciascuno di noi», spiega Sagnet. «Spesso non pensiamo a cosa c’è dietro al prodotto che compriamo, ma acquistare con consapevolezza è un atto politico, perché ci permette di supportare non più lo sfruttamento, ma un’economia solidale e dei prodotti sani, non solo perché privi di pesticidi, ma anche perché rispettano la dignità di chi li ha raccolti. Il progetto No Cap interviene a 360 gradi su tutta la filiera, dai lavoratori ai supermercati perché il nostro obiettivo non è quello di fare un’operazione di vendita dei prodotti, ma di, attraverso questo meccanismo, rovesciare il paradigma capitalista che ha messo al centro il prodotto e il profitto e non la persona».