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«No al gioco delle divisioni». Ma il Lazio non è modello Renzi

«No al gioco delle divisioni». Ma il Lazio non è modello RenziRenzi, Padoan, Gentiloni, Martina e Zingaretti ieri al Teatro Adriano di Roma – Ansa

A Region veduta Il leader a Roma con Gentiloni e Zingaretti. Una voce dal pubblico: perché Boschi a Bolzano? Bersani (Leu): «Niente inciuci, ma un Gentiloni-bis, se servisse per fare legge elettorale, si può fare»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 febbraio 2018

«È forte Nicola». Al cinema Adriano di Roma il premier Gentiloni comincia a parlare mentre ancora gli applausi a Zingaretti vanno avanti. Iniziativa a tre voci, i due presidenti in sequenza poi Renzi. Zingaretti corre fra le iniziative degli ultimi giorni di campagna elettorale. Soprattutto fa slalom da oro fra le polemiche del suo partito. La minoranza Pd, o quel che resta dopo le esclusioni dalle liste operate da Renzi, ha maldigerito la promessa di restare del segretario «a prescindere» dal responso del voto. C’è chi prepara «la corsa alla dichiarazione del 5 marzo», spiega un orlandiano, chi si prepara a chiedere un congresso. Chi vuole «ripartire da Gentiloni», è lo stesso Orlando. Chi invece guarda a Zingaretti come a una speranza per il Pd post Renzi.

SPERANZA MAL RIPOSTA, pigra. All’entrata del teatro il governatore spiega ai cronisti: «Io sono un candidato del centrosinistra alla Regione Lazio». Ma è innegabile che il suo modello di Pd sia tutto un altro rispetto a quello del Nazareno. Se persino un dirigente di Liberi e uguali molto radicale come Paolo Cento, antirenziano doc, può dire: «Nel Lazio dopo un confronto aspro abbiamo deciso sostenere Zingaretti per una ragione di merito e una di prospettiva. Due cose che fanno la differenza tra il modello Pd nazionale e quello che può diventare un nuovo laboratorio politico della nostra regione».

Massimiliano Smeriglio, ’regista’ (non candidato) della Lista Civica, su questo la pensa alla stessa maniera: «Qui stiamo costruendo un altro modo di intendere il campo democratico largo. Siamo competitivi, cosa che nessun altro modello può dire, e non solo in una regione». Per questo Zingaretti chiuderà la sua campagna elettorale a Latina, città simbolo della «riconquista» contro le destre. Ma anche piazza fuori dalle rotte delle polemiche nazionali. «Se ce la fa il Lazio ce la fa anche l’Italia», «Quando siamo arrivati in Regione eravamo di fronte all’abisso e l’abbiamo affrontato guardando in faccia la crisi, anche se l’abbiamo fatto forse troppo in silenzio», dice Zingaretti. Poi scappa via, ha un’iniziativa con Carlo Picozza, cronista d’inchiesta e capolista di lustro della Civica. E dopo una birra con i giovani di Leu.

LASCIA L’ADRIANO provvidenzialmente prima di dover ascoltare gli appelli al voto utile di Gentiloni e Renzi, appelli che sono un calcio sui denti alla sinistra alleata con il Pd nel Lazio. «Questo non è il momento di voti di ripicca e di voti segnaletici altrimenti ti ritrovi al governo populisti e anti europei», dice il premier. E quanto al suo antagonismo con il segretario: «Noi al gioco delle divisioni non ci stiamo, il nostro Pd unito metterà la sua forza al governo del Paese».

LA PLATEA È RENZIANA, ma quando il segretario cita il ministro Padoan seduto in prima fila, candidato ad Arezzo capitale delle polemiche sulle banche, anche per i fan del leader è troppo: «E la Boschi dove l’abbiano candidata?», urla una voce dalla platea. «A Bolzano per evitare che tutta la polemica fosse contro di lei», replica Renzi, «Siamo orgogliosi di una legislatura che ha fatto la riforma sulle banche, noi sulle banche ci abbiamo messo la faccia», continua. Non la faccia della sua ex ministra si intende.

Il segretario si riprende con una battuta contro i 5 stelle: «Di Maio prima passa il tempo a dire che siamo i peggiori e ora ci chiede i voti. C’è un piccolo particolare Luigi, noi ti riteniamo incompetente e incapace di governare il paese».

GLI INTERMINABILI andirivieni politici di Di Maio portano invece qualche scompiglio in Leu. Piero Grasso torna a essere possibilista su un appoggio a un eventuale governo pentastellato. «Prima non erano disponibili ad allearsi con nessuno, poi il contrario. Su immigrazione, Europa, diritti civili hanno preso posizioni antitetiche. Ma se ci sono punti comuni perché no», spiega. Mentre «con Berlusconi non ci può essere un punto in comune». Ma la presidente della Camera Laura Boldrini continua a pensarla diversamente: «Sono troppe le cose che ci dividono da M5S, non capisco cosa ci unisce».

SE PER IL PD il dopo voto più augurabile sono le larghe intese con Forza italia (altrimenti vorrebbe dire che ha vinto la destra), per Leu il dopo voto è un passaggio delicato. D’Alema ipotizza un «governo del presidente». Grasso si dice disponibile solo a votare solo una legge elettorale. Bersani da Otto e mezzo (La7) si spinge un po’ più in avanti: niente inciuci però «un Gentiloni-bis, se servisse per fare legge elettorale, si può fare». Ma un governo che ha una maggioranza non fa solo la legge elettorale. «Un governo governa», come ha ricordato qualche giorno fa lo stesso Gentiloni a Junker.

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