«Nicolò Amato sapeva ascoltare. E progettare il futuro delle carceri»
Intervista Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, ricorda l’ex capo del Dap e magistrato anti terrorismo scomparso ieri a 88 anni. «Non era certo contro l’emergenzialismo però considerava l’emergenza tale: transitoria. Perciò era critico verso quei provvedimenti che poi diventavano stabili»
Intervista Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, ricorda l’ex capo del Dap e magistrato anti terrorismo scomparso ieri a 88 anni. «Non era certo contro l’emergenzialismo però considerava l’emergenza tale: transitoria. Perciò era critico verso quei provvedimenti che poi diventavano stabili»
«Inquisitore», «riformista», «socialista», «cattolico»… Si potrebbe ricordare in tanti modi, Nicolò Amato, magistrato e avvocato messinese morto ieri, a 88 anni, a Roma. Come sostituto procuratore seguì molte delle inchieste sul terrorismo negli anni Ottanta, dai Nar al caso Moro passando per l’attentato a Giovanni Paolo II. Dal 1993 passò alla professione di avvocato e assunse la difesa di Craxi nei processi per Tangentopoli.
Politicamente assunse posizioni che non piacevano affatto alla sinistra, né allora né in epoche più recenti. Ma per tutti, ciò che lo distinse davvero fu la spinta riformatrice che impresse al sistema delle carceri nei dieci anni – dal gennaio del 1983 al giugno del 1993 – in cui fu a capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria.
Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è il miglior testimone di questo aspetto di Nicolò Amato.
Quando lo ha conosciuto?
Erano gli anni Settanta, l’ho conosciuto come pm. Poi ci siamo persi di vista e lo ritrovai come capo del Dap.
E in questa veste per cosa si è distinto?
Per tre aspetti che non sempre vanno di pari passo. Primo: lui ha sempre avuto una visione dell’esecuzione penale costituzionalmente orientata. Non c’era bisogno di riportarlo sul solco dei diritti costituzionali, era la sua impostazione di base. E questo lo portava anche a considerare che la risposta che il diritto penale deve dare alle situazioni più complesse è quella di diminuire i conflitti, non di aumentarli. Per lui l’esecuzione penale doveva essere un sistema di relazioni, non di conflittualità. Tant’è che nel periodo della presenza in carcere di esponenti delle organizzazioni armate degli anni ’70 Nicolò fu quello che facilitò anche i luoghi di interlocuzione, per trovare soluzioni che evitassero la perdita di una generazione. Pur mantenendo una “normalità” nell’esecuzione penale. E infatti a lui si devono le cosiddette “aree omogenee” (sezioni penitenziarie di discussione critica per la ricerca di una soluzione che portasse fuori dal periodo delle organizzazioni terroristiche armate, ndr). Lui intendeva fare del carcere un luogo in cui il tempo che vi si trascorre è un tempo significativo della persona, e non solo un tempo sottratto alla vita normale.
Oggi sarebbe attaccato da certe organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria?
Poteva sembrare che avesse un’attenzione maggiore sui detenuti ma non era così: Nicolò Amato – e questa è la sua seconda caratteristica – riusciva anche a motivare molto il personale. Dava significatività anche al tempo di chi lavorava nella carceri, di chi compiva una funzione che era sempre funzione dello Stato.
Ha parlato di tre aspetti difficilmente coesistenti.
Sì, il fatto è che oltre a tutto questo era anche un buon manager. Ossia, sapeva dirigere perché sapeva ascoltare. Quando c’era una particolare difficoltà, aveva l’abitudine di chiedere l’opinione delle persone esterne al Dap che stimava. Come me, che a quel tempo ero nel gruppo dei fondatori della rivista Antigone che poi si sarebbe trasformata in associazione. Aveva questa grande capacità: per lui l’occhio esterno è stato sempre un elemento importante e non un elemento intrusivo. Dopo di lui, troppo spesso il Dipartimento ha considerato intrusi coloro che hanno osato guardare dentro il Dap e il mondo penitenziario.
Nel marzo del 1993 fu autore di un documento che inviò al ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, per proporre la revoca del carcere duro, il 41 bis, ai mafiosi per evitare altre stragi. È vero?
Questo è l’elemento di complessità e di varie interpretazioni. C’è chi l’ha letta come una trattativa, io non voglio addentrarmi nella questione. Ma si tenga presente che, fin quando ha gestito lui il 41 bis, il carcere duro era un regime molto diverso da quello che poi è diventato: non c’era ancora una legge che lo stabilizzasse, era un provvedimento chiaramente di natura emergenziale. Certamente, Amato non era contro i provvedimenti d’emergenza, su questo non eravamo d’accordo, però considerava l’emergenza tale: transitoria. Questo lo ha portato ad avere posizioni critiche su tutti quei provvedimenti che da emergenziali diventavano “normali”, stabili.
Nelle pubblicazioni di sinistra di allora molti lo descrivevano come « tra i più disinvolti intellettuali organici di quel giustizialismo che non esitò a consumare il più feroce scempio dello stato di diritto». Eppure contribuì anche alla riforma del 1986 dell’esecuzione penale, la legge Gozzini.
Nel corso della sua vita ha fatto anche scelte politiche sulle quali non mi sono trovato d’accordo, ma fin quando ha gestito una situazione complessa ha saputo fare di quella complessità un mix progettuale efficace. Capacità che, mi dispiace dirlo, non ho più trovato successivamente.
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