Netflix, mercoledì da gattini
Frame da «Bridgerton», uno dei titoli kolossal in streaming su Netflix
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Netflix, mercoledì da gattini

Media Prima grande crisi del colosso dello streaming: il crollo in borsa è costato oltre 50 miliardi di dollari in ricapitalizzazione e tanti dubbi sul futuro. Anche a Hollywood

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 22 aprile 2022
Luca CeladaLOS ANGELES

Il crollo in borsa dopo la perdita di 200 mila abbonati a fronte di un decennio di crescita costante, è costato a Netflix oltre 50 miliardi di dollari in capitalizzazione. Il titolo del colosso streaming ha perso il 35% del valore ed è tornato alla valutazione dell’autunno 2019. Si è trattato di un vero e proprio «mercoledì nero» per lo streamer di Los Gatos che, arrivato da Silicon Valley con un servizio di Dvd affittati per posta, ha sepolto il videonoleggio e le tv via cavo, e finito per cambiare i connotati a Hollywood introducendo il modello di piattaforme on-demand che ha sancito l’unione di cinema e rete.

Il predominio assoluto costruito in un decennio è stato siglato dall’effetto lockdown che ne ha ulteriormente sancito lo strapotere, facendo dello streaming il nuovo standard mondiale di fruizione di contenuti cinetelevisivi. Un boom che sembrava non avere fine durante il quale scintillanti edifici marchiati con l’iconica «N» rossa sono spuntati come funghi lungo Hollywood e Sunset boulevards mentre l’azienda costruiva centri di produzione e faceva incetta di immobili nel cuore di Hollywood con una foga mai vista dai giorni dei vecchi studios. In questi anni ruggenti Netflix è passato da essere ultimo arrivato a corazzata Hollywoodiana, forte di una base di 220 milioni di abbonati e prodotti di prestigio in film come Roma di Alfonso Quaron.

Il predominio assoluto costruito in un decennio è stato siglato dall’effetto lockdown che ne ha ulteriormente sancito lo strapotere,

SULLO SFONDO di una crisi delle sale cui ha contribuito non poco, le statistiche di «Big N» sono da fantascienza. L’azienda rimane leader assoluto del settore. Da gennaio a marzo ha guadagnato 1,6 miliardi di dollari su un fatturato di 7,9 miliardi. Sono quasi un miliardo in più rispetto al trimestre precedente, per il trimestre in corso l’azienda prevede di fatturare 8 miliardi di dollari. Ma nel mondo surriscaldato dello streaming (e della finanza) a contare sono le tendenze e le percezioni. Non conta tanto che i 220 milioni di abbonati siano il doppio di quelli di cinque anni fa, quanto la prima perdita netta di abbonati, e la previsione di una flessione ulteriore di due milioni di utenti.

I dirigenti dell’azienda hanno citato la guerra, costata 700 mila abbonati in Russia quando l’azienda ha interrotto il servizio in quel paese, ma la spiegazione non è bastata a calmare uno scetticismo generalizzato sulla capacità di Netflix di mantenere i ritmi di crescita degli ultimi anni.

Altri fattori addotti dalla dirigenza sono l’incremento della concorrenza da parte degli studios che particolarmente negli ultimi anni hanno fatto a gara ad inaugurare piattaforme che competono per lo stesso pool di potenziali abbonati. Fra questi vi sono colossi come Amazon (a breve sulla piattaforma di Bezos il debutto della serie basta sul Signore degli anelli) e Apple TV +, anch’essa dotata di smisurate riserve.

Soprattutto Disney+ che ha messo dietro il lancio della propria piattaforma globale tutto il peso del proprio magazzino e la potenza di fuoco promozionale di cui è capace, bruciando le tappe verso un seconda posizione globale.

A questo si aggiunge una saturazione dei mercati che stanno raggiungendo i limiti della tolleranza per gli abbonamenti, con un numero crescente di utenti costretti a scegliere a quale piattaforma abbonarsi in un campo sempre più affollato di offerta, o magari fare uso di periodi promozionali gratuiti per disdire una volta visionati i contenuti desiderati. Solo in America nel 2021 gli abbonati hanno guardato complessivamente l’equivalente di 15 milioni di anni di contenuti streaming. 85 per cento delle case americane è abbonata ad almeno un servizio streaming.

MESSI TUTTI ASSIEME hanno costituito una sorta di tempesta perfetta che ha scalfito l’aura di invincibilità di Netflix e di Ted Sarandos, il «chief content officer» considerato da molti l’uomo più potente di Hollywood, ma che potrebbe ora scoprire anche lui il significato di una regola d’oro di Hollywood: «sei bravo solo quanto il fatturato del tuo ultimo film.»

L’amministratore delegato Reed Hastings dal canto suo ha tentato di arginare il panico degli investitori annunciando che nel prossimo anno o due la piattaforma potrebbe adottare una scissione in servizio premium ed uno low-cost, con contenuto pubblicitario (un modello già adottato da servizi come Youtube). L’altro accorgimento dovrebbe essere il giro di vite sulla condivisione delle password in ambito familiare.

«Ci pensiamo da un paio di anni», ha detto Hastings. «Ora diventerà una priorità». Un programma pilota lanciato in Cile, Perù e Costa Rica prevede già una tariffa supplementare per la condivisone familiare dell’account.

L’amministratore delegato Reed Hastings dal canto suo ha tentato di arginare il panico degli investitori annunciando che nel prossimo anno o due la piattaforma potrebbe adottare una scissione in servizio premium ed uno low-cost

PAYWALL RAFFORZATI e spot pubblicitari non trasmettono però esattamente un alto tasso di fiducia. E nella industry c’è chi non se ne rammarica poi tanto. L’ascesa di Netflix ha lasciato una scia non indifferente di cadaveri eccellenti e c’è una nutrita schiera di operatori di media tradizionali che aspetta in riva al fiume che passi quello del nemico che li ha resi obsoleti. Obbiettivamente però una crisi di Netflix non può che preoccupare un settore – specialmente quello di autori e creativi – che ha beneficiato dal boom della richiesta di contenuti originali, ad Hollywood ma anche nei territori internazionali dove le commesse dell’azienda hanno generato produzioni come Casa di Carta o Squid Game.

Assieme al crash di Meta/Facebook a febbraio il mercoledì nero di Netflix ha scatenato un coro di annunci sulla fine di un era. Ma difficilmente stiamo assistendo al ritorno dell’analogico – semmai un ridimensionamento simile a quelli che hanno periodicamente punito le bolle new economy ed i suoi teoremi di crescita infinita. Per capire se la crisi sia generalizzata o circoscritta a Hollywood e Wall street si attende ora con una certa ansia l’annuncio dei fatturati Disney previsto l’11 maggio.

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