Si combatte ovunque in queste ore, anche nel governo israeliano. Descritto da Biden come l’autore della proposta di accordo in tre fasi di cessate il fuoco e scambio di prigionieri con Hamas annunciato venerdì scorso, invece l’esecutivo israeliano è stato messo in forte difficoltà dalle forzature del presidente americano. E si è ulteriormente spaccato.

Il nodo resta la ripresa dell’offensiva israeliana al termine della tregua di sei settimane che dovrebbe portare alla liberazione di ostaggi in cambio della scarcerazione di centinaia di prigionieri politici palestinesi. Benyamin Netanyahu insiste che la guerra non si fermerà fino alla «distruzione totale di Hamas come forza militare e di governo». Obiettivo che certo non è gradito al movimento islamico che l’accordo annunciato da Biden sembra disposto ad accettarlo. Vuole però la garanzia ufficiale degli Usa che Israele metterà in atto tutte le condizioni dell’intesa e sottolinea la sua richiesta di un cessate il fuoco duraturo.

NETANYAHU SI TROVA tra l’incudine e il martello. Tra Biden che preme per il cessate il fuoco e gli alleati dell’estrema destra, i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che minacciano di far cadere il governo se Israele darà luce verde all’accordo con Hamas. Ben Gvir ha riferito ieri che il primo ministro sabato sera si è rifiutato di mostrargli la bozza della proposta di accordo sugli ostaggi. «Ben Gvir vuole una guerra fino alla vittoria totale e la rioccupazione militare israeliana di Gaza. Qualsiasi soluzione diversa da questa per lui ha il sapore di una sconfitta», spiega l’analista Michael Warshansky. «Allo stesso tempo – aggiunge l’analista – Ben Gvir rischia di essere travolto dalle proteste delle famiglie che chiedono la liberazione degli ostaggi attraverso una trattativa e non con la forza militare».
Ieri è stata annunciata la morte di altri tre ostaggi a Gaza. Il corpo di un quarto israeliano che si riteneva prigioniero a Gaza dal 7 ottobre, è stato ritrovato non lontano dal Kibbutz Nir Oz.

NETANYAHU VUOLE SALVARE il suo governo e l’alleanza con l’ultradestra che lo tiene al potere, senza però apparire responsabile dell’ennesimo fallimento dei negoziati. Perciò ieri ha insistito sul rifiuto di un cessate il fuoco permanente e sostenuto che ci sono differenze tra la proposta annunciata dal presidente Usa e quella reale israeliana. La sua strategia è spingere Hamas a respingere l’accordo. «L’affermazione secondo cui abbiamo concordato un cessate il fuoco senza che le nostre condizioni fossero soddisfatte non è vera», ha detto il premier Benyamin Netanyahu in commissione alla Knesset.

L’Amministrazione americana da parte sua nega forzature da parte di Biden, però fa pressione solo su Hamas. Il movimento islamico «deve accettare l’accordo proposto da Israele: è buono per la popolazione a Gaza, è buono per gli israeliani. È un accordo molto serio, è il migliore per mettere fine a questo conflitto», ha detto John Kirby del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa.

MENTRE IL NEGOZIATO si avvia verso un nuovo nulla di fatto, a quasi otto mesi dall’attacco di Hamas e dall’inizio dell’offensiva israeliana, circa il 55% di tutti gli edifici di Gaza è stato distrutto o danneggiato dai raid aerei e dalle cannonate. Una analisi satellitare fatta dalle Nazioni unite – che mette a confronto immagini del 3 maggio con quelle scattate il 15 ottobre 2023 mostra che più di 137.000 strutture sono state colpite. I bombardamenti, infatti, proseguono intensi e lo stesso esercito israeliano comunica che tra domenica e ieri sono stati lanciati 50 attacchi aerei su Gaza. Il bilancio dei morti nella Striscia è stato aggiornato a 36.479. Almeno 40 palestinesi sono stati uccisi nelle ultime 24 ore, in particolare in bombardamenti sui campi profughi di Nuseirat e Bureji, su Rafah e Khan Yunis. Incurante degli ordini emessi dalla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, l’esercito israeliano prosegue la sua avanzata all’interno di Rafah dove incontra l’opposizione di decine di combattenti di varie formazioni palestinesi e non solo di Hamas.

L’EMERGENZA UMANITARIA si aggrava con l’ingresso ridotto di aiuti causato dalla chiusura del valico di Rafah. Scott Anderson, dell’Unrwa (Onu), avvertito che la sua agenzia e altre organizzazioni non sono ancora in grado di fornire beni di prima necessità, come tende e acqua potabile, alle famiglie palestinesi. La scarsità di acqua, ha aggiunto, è una delle maggiori preoccupazioni con l’aumento delle temperature.