Ieri nel momento in cui l’esercito israeliano cannoneggiava Gaza, da dove erano stati lanciati palloncini incendiari, e poco dopo l’uccisione a Jenin di un altro giovane palestinese, Benyamin Netanyahu si è rivolto all’Assemblea generale dell’Onu per chiedere che venga negato ai palestinesi dei Territori, sotto occupazione israeliana da 56 anni, la facoltà di condizionare la normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Stato ebraico alla realizzazione del loro diritto alla libertà e all’indipendenza. I palestinesi sono il 2% degli arabi quindi, ha detto il premier israeliano, «non dobbiamo dargli il diritto di veto». A giudizio di Netanyahu, gli Accordi di Abramo del 2020 – tra Israele e quattro paesi arabi – hanno «annunciato l’alba di un nuovo Medio oriente». E ora, ha proseguito, «all’alba di una pace storica con l’Arabia saudita, altri Stati arabi seguiranno e rafforzeranno la possibilità di pace con gli israeliani, forgiando legami tra ebrei e musulmani».

Quanto sia stato ingigantito da Netanyahu lo stato (presunto) avanzato della trattativa indiretta con i sauditi – condotta dagli Usa – e con esso la normalizzazione imminente tra Riyadh e Tel Aviv, è difficile stimarlo. Il governo israeliano brama l’ingresso dei Saud negli Accordi di Abramo. Sarebbe un risultato enorme per Netanyahu e ne ha bisogno Joe Biden per aiutare, con un successo diplomatico, la futura campagna per le presidenziali. Da Riyadh però arrivano segnali ambigui. Qualche giorno fa, l’Arabia saudita ha ribadito che viene prima lo Stato di Palestina. Poco dopo l’erede al trono Mohammed bin Salman ha ridimensionato il peso dei diritti palestinesi.

Altrettanto importanti le accuse che Netanyahu ha rivolto ieri all’Iran, condite da frasi inquietanti: Teheran, ha detto, «deve affrontare una minaccia nucleare credibile».