Netanyahu sotto accusa. La percezione popolare: gli ostaggi uccisi per colpa sua
Israele Avido di potere, una moglie che sembra avere un ruolo dominante, Netanyahu è tormentato dall’eventualità di dover tornare in tribunale e magari finire in carcere
Israele Avido di potere, una moglie che sembra avere un ruolo dominante, Netanyahu è tormentato dall’eventualità di dover tornare in tribunale e magari finire in carcere
In Israele, strade e piazze piene di manifestanti e di collera. C’è già chi invita a ripetere l’ondata di proteste di massa che avevano percorso il paese prima del 7 ottobre 2023. Quando il premier Benyamin Netanyahu aveva deciso di portare avanti la cosiddetta rivoluzione giudiziaria, e aveva annunciato che avrebbe cacciato il ministro Yoav Gallant, pronunciatosi pubblicamente contro quella sedicente riforma, contro il governo erano scesi in piazza tanti cittadini e ripetutamente. Con grande soddisfazione da parte di Gallant, la riforma era stata teoricamente interrotta. Nel frattempo, lontano dall’attenzione pubblica, alcune delle misure della riforma sono state applicate. Negli ultimi mesi è risultato chiaro ai più che la tensione tra il primo ministro e il ministro della difesa è difficile da contenere. Fattore aggravante: le forze armate e i servizi di sicurezza funzionano più o meno in modo coordinato.
E il ruolo di Netanyahu, da sempre abituato a fare da generale al comando, è in difficoltà, con i sondaggi a indicare una sua sonora sconfitta da parte di diversi altri possibili contendenti, in caso di elezioni.
Avido di potere, una moglie che sembra avere un ruolo dominante, Netanyahu è tormentato dall’eventualità di dover tornare in tribunale e magari finire in carcere. La famiglia reale sembra una pallida copia della dittatura di Nicolae Ceausescu in Romania ma con il tocco aristocratico e la retorica ciarlatana per la quale noi viviamo in una cosiddetta democrazia esemplare.
La dottrina di Netanyahu, secondo la quale il sostegno economico a Hamas avrebbe calmato la situazione ai confini, non si riferiva solo alla Striscia di Gaza. Sosteneva di poter neutralizzare in tal modo gli slanci bellici o terroristici di Hamas, facendo intanto tutto il possibile per indebolire l’Autorità palestinese, certo guidata in modo problematico e corrotto dal cerchio di Abu Mazen. Una condotta adatta a seppellire l’opzione di due Stati per due popoli, teoricamente accettata dal premier, ma solo per ammorbidire la sua immagine in politica estera.
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Colonialismo e barbarieÈ ancora molto difficile per gli israeliani – e ancor più per chi non lo è – iniziare ad analizzare la situazione politica reale, gli effetti del grande shock, del tanto sangue versato, i morti, i dispersi, i cadaveri sequestrati e i prigionieri. Anche se alcuni di noi vorrebbero trascorrere molte meno ore davanti a una povera televisione con giornalisti mediocri (salvo alcune eccezioni), devo confessare che ormai riconosco i parenti dei prigionieri, padri, madri, figli, fratelli: appaiono ripetutamente, in una formidabile campagna per chiedere al governo che porti avanti davvero gli sforzi negoziali necessari a ottenere la liberazione dei loro cari.
Dopo due mesi dall’inizio dell’attacco del 7 ottobre, l’accordo tra Israele e Hamas aveva prodotto un processo sfociato nella liberazione di oltre 100 prigionieri. Sembrava un passo positivo, mentre decine di migliaia di palestinesi venivano uccisi dalle forze israeliane e Gaza si convertiva in una terra distrutta, nella quale è impossibile vivere.
Il gabinetto di sicurezza dovrebbe discutere la sicurezza dello Stato, ma riflette senza dubbio la preoccupazione del primo ministro per la sua sicurezza politica. Dopo l’abbandono del governo da parte di Benny Gantz e del suo partito, i quali avevano creduto che fosse un loro dovere offrire una voce esperta e rispettata, Netanyahu ha aggiunto alcuni poveri lacchè che si limitano a dire sempre sì, più che servizievoli.
Lo scorso giovedì è stato critico: la guerra di Netanyahu contro Gallant si è scatenata con violenza; il capo del governo ha chiesto di decidere per il permanere della presenza militare a Rafah e per il controllo israeliano del passo Filadelfia. Questo significava – come ha fatto osservare il ministro Gallant – introdurre una clausola capace di impedire il raggiungimento di un accordo per lo scambio di prigionieri. Gli imbecilli ministri del Likud non hanno avuto scelta: sostenere il Grande leader oppure essere spazzati via.
Mentre sembrava che le trattative stessero avanzando e che un epilogo positivo fosse possibile, sia il problematico delle finanze Bezalel Smotrich, razzista ma efficace saccheggiatore di fondi pubblici a favore dei coloni nei territori occupati, sia l’altrettanto razzista ministro della polizia Itamar Ben Gvir hanno annunciato la volontà di abbandonare il governo in caso di raggiungimento dell’accordo.
Quando già si sapeva della disastrosa risoluzione e i ministri del Likud rifiutavano di cambiare atteggiamento, sono arrivate le prime voci, poi ufficialmente confermate: sei prigionieri sono stati uccisi da Hamas. A peggiorare le cose, tre di loro erano nella lista dei prigionieri che avrebbero dovuto essere rilasciati fra i primi, sulla base dell’accordo in discussione da settimane.
L’esplosione di furia contro Netanyahu è il frutto naturale della percezione popolare: gli ostaggi sono stati uccisi per colpa sua. Da domenica pomeriggio sono iniziate grandi manifestazioni contro il governo. Alle proteste si sono poi aggiunti, un fatto molto importante, la Federazione generale dei lavoratori (Histadrut) e il Coordinamento delle forze economiche. Intanto, però, si parla di un sondaggio secondo il quale la maggioranza dei cittadini del paese preferirebbe gli argomenti di sicurezza di Netanyahu rispetto alla liberazione dei prigionieri.
La cacofonia sembra molto difficile da decifrare. Con preoccupazione (vera o apparente), già diversi analisti annunciano che il pericolo di una guerra civile è effettivo e forte, da evitare in tutti i modi. Tuttavia, ho l’impressione che la sopravvivenza politica del nostro grande e aristocratico Ceausescu non sia in pericolo. Purtroppo.
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