Il governatore del Nord del Sinai, Mohamed Abdel Fadil, smentisce voci e indiscrezioni. «L’Egitto ha sempre affermato che lo spostamento forzato dei residenti di Gaza nel suo territorio non sarà mai consentito», ha detto ieri. Poi però ha ammesso che il paese «è pronto a tutti gli scenari che potrebbero presentarsi nel malaugurato caso in cui Israele effettuasse operazioni militari nella città di Rafah». Così facendo ha indirettamente confermato che c’è qualcosa di vero nel rapporto pubblicato due giorni fa dalla Fondazione Sinai per i Diritti Umani con immagini che mostrano l’allestimento nell’area di confine del Sinai orientale di un ampio spazio recintato e sorvegliato in cui potrebbero finire decine forse centinaia di migliaia di abitanti di Gaza in fuga da Rafah se e quando Israele attaccherà la città sul confine con l’Egitto dove si ammassano 1,4 milioni di civili palestinesi. I lavori sarebbero cominciati il 12 febbraio. La Fondazione Sinai scrive che l’esercito ha assegnato a Ibrahim Al Arjani, uomo d’affari vicino alle autorità egiziane, l’incarico di costruire il campo di accoglimento, circondato da muri alti sette metri. La barriera di cemento correrà dal villaggio di Qoz Abo Raad fino a quello di Al Masura, parallelo al confine con Gaza.

IL MURO EGIZIANO SUL CONFINE CON GAZA

La Nakba di Gaza o l’esodo di almeno una parte della popolazione palestinese nel Sinai resta perciò un’opzione concreta, malgrado gli avvertimenti lanciati proprio dall’Egitto a Israele e l’opposizione, almeno a parole, manifestata dall’Amministrazione Biden e di altri governi occidentali. D’altronde è difficile immaginare dove altro potrebbero scappare così tanti palestinesi davanti a un attacco militare massiccio a Rafah mentre vaste porzioni della Striscia sono state devastate da bombardamenti e Israele non consente il ritorno agli sfollati nell’area a nord del Wadi Gaza.

L’offensiva militare è incessante, così come vogliono il premier israeliano Netanyahu e il gabinetto di guerra allargato a parte dell’opposizione. Nell’ospedale Nasser di Khan Yunis, sotto assedio da giorni e colpito più volte mercoledì, con morti e feriti, ieri si sono vissute altre ore drammatiche. Forze speciali israeliane hanno fatto irruzione in quello che è il più grande ospedale ancora operativo di Gaza alla ricerca di corpi di ostaggi presi da Hamas il 7 ottobre. In realtà erano più alla caccia di militanti del movimento islamico che, afferma Israele, si nasconderebbero nella struttura sanitaria. Il portavoce militare ha parlato di un «raid preciso e limitato», ma i video dell’incursione hanno mostrato scene di caos con urla e spari in corridoi bui, persone che camminavano usando le luci del telefono, con polvere di intonaco che vorticava e detriti sparsi ovunque. In un video si sentono spari e un medico che grida «C’è ancora qualcuno dentro? Ci sono spari, ci sono spari, testa bassa». Khaled Elserr, un cardiologo, ha riferito su Instagram che «intorno alle 2.30 del pomeriggio, 120 pazienti e circa 50 medici e infermieri erano ancora bloccato nei dipartimenti in cui ci è stato intimato di andare (dai soldati)». Il portavoce del ministero della sanità di Gaza, Ashraf Al Qudra, ha denunciato il raid riferendo che «i soldati sono nel reparto emergenze e traumi e stanno all’allontanando con la forza gli sfollati e lo staff medico…le truppe stanno rimuovendo i corpi dei morti dalle sepolture improvvisate scavate accanto all’ospedale». Per il portavoce militare israeliano, il blitz invece è stato rispettoso dei pazienti e del personale medico e avrebbe avuto per scopo solo quello di «raggiungere i terroristi operativi di Hamas, inclusi quelli sospettati di essere coinvolti nel massacro del 7 ottobre». A suo dire alcuni ostaggi erano nell’ospedale Nasser.

Reagendo a un articolo del Washington Post, secondo cui gli Stati uniti e alcuni paesi arabi si starebbero preparando a presentare un piano che prevede tempi precisi per la creazione di uno Stato palestinese, ieri Netanyahu ha totalmente respinto l’idea. Attraverso un suo portavoce ha detto che «non è il momento di discutere piani». In Israele, ha aggiunto, «siamo ancora all’indomani del massacro del 7 ottobre. Ora non è il momento di parlare di doni per il popolo palestinese, in un momento in cui la stessa Autorità Palestinese deve ancora condannare il massacro del 7 ottobre. Ora è il momento della vittoria, della vittoria totale su Hamas». La rivelazione del Washington Post è stata accolta con irritazione dalla destra al governo, peraltro impegnata in questi giorni nell’approvazione di una legge che impedirà la presenza in territorio israeliano e a Gerusalemme est di qualsiasi struttura dell’Unrwa, l’agenzia per i profughi palestinesi.

Punto chiave del piano riferito dal quotidiano Usa, sarebbe il raggiungimento di un cessate il fuoco iniziale tra Israele e Hamas di sei settimane durante le quali Washington annuncerebbe il progetto e la formazione di un governo palestinese ad interim. Gli Usa ritengono centrale la tregua e la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza prima del Ramadan, previsto il 10 marzo. Il piano per lo Stato palestinese prevederebbe l’evacuazione delle colonie israeliane in Cisgiordania, la capitale palestinese a Gerusalemme Est, la ricostruzione di Gaza e accordi di sicurezza e governance per Cisgiordania e Gaza unite. Se Israele accetterà, otterrà la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia saudita e buona parte dei paesi arabi. La possibilità che Netanyahu e gran parte delle forze politiche israeliane, incluse alcune di quelle all’opposizione, possano accettare questo piano, sono praticamente nulle.