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Nessuno crede più ai colloqui al Cairo. La tregua è lontana

Nessuno crede più  ai colloqui al Cairo. La tregua è lontanaGaza. Funerali di vittime di bombardamenti israeliani a Deir Al Balah – Ansa

Li fermi chi può Ripartono i negoziati per il cessate il fuoco a Gaza. Ma i punti fermi di Netanyahu li frenano. L’ira dei kibbutz e del Forum degli ostaggi. Omicidio mirato di Israele in Libano: colpito Khalil Al Maqdah, un leader di Fatah a Ein el Hilwe

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 22 agosto 2024
Michele GiorgioGERUSALEMME

Non c’è più entusiasmo intorno alla ripresa, prevista oggi al Cairo, dei colloqui per il cessate il fuoco a Gaza e lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri politici palestinesi. L’Egitto si dice «scettico» e la fine in sordina della missione in Medio oriente del segretario di stato Usa Blinken, segnala che l’accordo di tregua resta un miraggio. Ma mentre Joe Biden e il governo israeliano accusano Hamas di aver rifiutato la proposta-ponte degli Stati uniti per accorciare le distanze tra le parti, gli stessi cittadini israeliani hanno le idee chiare sul responsabile del fallimento: Benyamin Netanyahu. Per la delusione di molti nel suo paese, il premier israeliano, ha posto nuove condizioni, alterando la proposta di accordo formulata e annunciata da Biden nei mesi scorsi, sapendo che Hamas le avrebbe respinte. In segno di protesta il Forum che riunisce le famiglie degli ostaggi ha annunciato ieri che non prenderà parte alla cerimonia ufficiale di commemorazione del 7 ottobre, unendosi ai kibbutz Nirim, Beeri, Kfar Azza, Nir Oz, Yad Mordechai e Nahal Oz che boicotteranno la cerimonia presieduta dal ministro dei Trasporti Miri Regev.

Analisti, media e persino qualche negoziatore israeliano hanno spiegato che i «punti fermi» posti da Netanyahu per il raggiungimento di un accordo con Hamas sono chiodi nella bara della trattativa che, appena una settimana fa a Doha, i mediatori di Usa, Egitto e Qatar descrivevano come molto promettente. Pochi giorni dopo è cambiata l’atmosfera, tra lo sgomento delle famiglie degli ostaggi e la disperazione di due milioni di palestinesi di Gaza che vivono in condizioni disumane a causa dell’offensiva israeliana.

Blinken era stato incaricato di fare il possibile per portare le parti all’accordo, ma alla fine ha accolto le condizioni di Netanyahu. A cominciare dalla «presenza» dell’esercito israeliano a Gaza seccamente respinta da Hamas. Il premier israeliano vuole mantenere l’occupazione della Striscia anche se non a tempo indeterminato, almeno così si ritiene. Il canale saudita Sharq rivelava ieri che la proposta-ponte presentata dagli Usa include proprio la presenza israeliana sull’asse Filadelfia, tra Gaza e l’Egitto, e il controllo da parte dell’esercito di occupazione del Corridoio Netzarim che taglia la Striscia da est a ovest. Israele, inoltre, in apparenza con l’appoggio Usa, dopo la liberazione degli ostaggi a Gaza deporterà all’estero 150 prigionieri palestinesi e avrà diritto di veto sulla liberazione di altri 65 detenuti di primo piano. Hamas invece vuole un cessate il fuoco definitivo e immediato e chiede la scarcerazione di centinaia di prigionieri politici, inclusi alcuni di quelli più noti e popolari e di condannati all’ergastolo, come Marwan Barghouti.

Di pari passo al fallimento previsto dei colloqui al Cairo, risale la tensione tra Israele e Hezbollah. Torna di attualità la risposta annunciata dal movimento sciita libanese all’uccisione, a fine luglio, del suo comandante militare Fuad Shukr. Senza dimenticare il desiderio di vendetta dell’Iran per l’assassinio sul suo territorio, attribuita a Israele, del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh. Ieri la guerra aperta si è avvicinata un po’ di più con il continuo scambio di razzi, droni killer e artiglieria tra le due parti. Israele ha anche colpito nella valle della Bekaa un presunto deposito di armi, facendo secondo fonti libanesi cinque morti. Hezbollah ha reagito lanciando una pioggia di oltre cento razzi verso le alture del Golan, molti dei quali indirizzati verso Katzrin, la capitale delle colonie israeliane nel territorio occupato dal 1967, dove hanno fatto un ferito. L’aviazione israeliana in Libano ha compiuto un altro «omicidio mirato». Ma questa volta non si tratta di un esponente di Hezbollah o di Hamas, bensì di Fatah, il partito del presidente palestinese Abu Mazen. Un razzo ha ucciso Khalil al Maqdah davanti al campo profughi palestinese di Ain al-Helweh, alla periferia di Sidone. L’ucciso, descritto da Israele come «un uomo dell’Iran che dall’estero dirigeva le Brigate dei Martiri di Al Aqsa in Cisgiordania», era il fratello di Munir al Maqdah, l’importante quanto controverso capo militare di Fatah in Libano.

Ora i carri armati avanzano verso il centro di Gaza, a Deir al Balah, l’unica città della Striscia non ancora occupata dalle truppe israeliane e dove hanno trovato un rifugio un milione di persone, in prevalenza all’interno di 200 scuole e di centri di accoglienza. La sorte di questi civili è un punto interrogativo. Gli ordini di evacuazione sono continui e si riducono di giorno in giorno i pezzi di territorio che Israele considera «aree sicure» (solo l’11% di Gaza include zone di rifugio per i 2 milioni di civili). Si teme che per questi sfollati, già alle prese con le difficoltà della sopravvivenza quotidiana e la scarsità di acqua potabile, il futuro non preveda altro che una fuga in massa come avvenuto a Rafah all’inizio di maggio. Gli attacchi aerei israeliani ieri hanno ucciso almeno 50 palestinesi e colpito 30 obiettivi tra cui una scuola, la Salah Edin di Gaza city, e una casa vicina, uccidendo almeno quattro persone e ferendone 15, tra cui diversi bambini. Israele, anche in questo caso, ha giustificato l’attacco alla scuola con la necessità di colpire un «centro di comando» di Hamas. A Bani Suhaila, vicino a Khan Younis, un attacco aereo ha ucciso sette palestinesi in un accampamento di tende per sfollati.

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