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Nella vostra legge «tutto il male del mondo»

Il mio no Non ho partecipato al voto sull’introduzione del delitto di tortura nel nostro ordinamento perché ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 18 maggio 2017

Non ho partecipato al voto sull’introduzione del delitto di tortura nel nostro ordinamento perché ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa perché il disegno di legge in origine portava il mio nome, in quanto esattamente il primo giorno dell’attuale legislatura (il 15 marzo 2013) depositai il mio testo. Del quale, oggi, praticamente nulla più resta.

Nell’articolato discusso nel luglio del 2016, si pretendeva che le violenze o le minacce gravi fossero «reiterate» perché così, e solo così, si sarebbe concretizzato il reato di tortura. Oggi, nel testo approvato, si dice che il fatto è punibile se compiuto mediante «più condotte». Ora, passi che il reato di tortura non sia riconosciuto per quel che è: un reato proprio dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio, derivante cioè dall’abuso di potere di chi tiene sotto la propria custodia un cittadino. Passi che il trauma psichico della vittima di tortura debba essere «verificabile» per concorrere a definire il fatto delittuoso. Ma che quest’ultimo debba comportare, per essere perseguibile, «più condotte» (dello stesso genere o necessariamente distinte?), ciò è davvero inaccettabile.

Così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica.

D’altra parte, come si è detto, per esservi tortura devono verificarsi violenze esercitate attraverso più condotte. Dunque il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di water boarding) potrebbe non essere punito. Ancora, scrivere che il trauma psichico deve essere verificabile significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?

Tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate. E non per un riprovevole ma dichiarato atteggiamento di giustificazione della tortura in nome di qualche stato di eccezione: bensì solo per accondiscendere a richieste corporative che vogliono salvaguardare i peggiori, infangando la dignità dei migliori tra gli appartenenti alle forze di polizia, che, nella grande maggioranza, non userebbero violenza contro le persone sottoposte alla loro custodia. Non sanzionare quanti ricorrono a torture o a trattamenti inumani o degradanti, questo sì che significa disonorare la divisa e ledere il prestigio delle forze di polizia.

Tutto ciò conferma ancora una volta come i partiti non riescano a liberarsi di quel riflesso d’ordine che li rende subalterni, prima ancora che ai corpi dello Stato, alle loro rappresentanze politico-sindacali, alle loro potenti pulsioni corporative e alle loro irresistibili tendenze alla connivenza. È come se la classe politica non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della loro dipendenza in via esclusiva «dalla legge». Da qui, una sorta di complesso di inferiorità e di sudditanza psicologica che pone come prioritario l’obiettivo della stabilità e della compattezza di quegli stessi apparati, anche quando ciò vada a scapito della piena legalità del loro agire. E a scapito di indispensabili, e non sempre indolori, processi di democratizzazione. Si tratta di un meccanismo micidiale che alimenta lo spirito di corpo e ostacola qualunque processo di autentica autoriforma.

Di conseguenza anche questa non sembra la legislatura adatta per far corrispondere il nostro codice penale alle disposizioni costituzionali e a quelle della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984.

In ultimo, ricordo che la ratifica da parte dell’Italia di quella Convenzione porta la data del 1 gennaio 1988. È l’anno di nascita di Giulio Regeni, il nostro connazionale sequestrato, torturato e ucciso al Cairo nel 2016. Perché richiamo questa coincidenza? Perché nell’atteggiamento – che mi addolora definire inerziale – del nostro Paese nei confronti del regime dispotico dell’Egitto, che nega la verità su quella morte, trovo una possibile e drammatica chiave di interpretazione. L’Italia, tuttora priva di una legge contro la tortura, rivela una sorta di complesso di colpa e un deficit di autorità morale quando deve pretendere da un altro Stato un’intransigente ricerca e una severa sanzione delle responsabilità di chi ha seviziato e brutalizzato il corpo di un giovane. Non posso non ricordare qui le parole dei genitori di Giulio Regeni, ai quali dedico questo mio modesto atto di dissenso. Davanti al suo corpo martoriato, hanno detto: «Il volto di nostro figlio era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Lo abbiamo riconosciuto dalla punta del naso. Sul suo viso tutto il male del mondo».

Sì, tutto il male del mondo – nel pensiero dei signori Regeni – è appunto la tortura. Che non è solo esercizio di violenza sull’organismo fisico della vittima, sugli arti, sulle piante dei piedi, sulla schiena, sui genitali e sul volto. È volontà di degradazione della persona, mortificazione della sua identità, annichilimento della sua dignità. È intenzionale riduzione della «materia umana» (Primo Levi) alla sola dimensione del dolore fisico, schiacciando e annullando quell’umano nella materialità sofferente del corpo brutalizzato.

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