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Nel porto blindato di Shengjin in attesa del primo sbarco

Nel porto blindato di Shengjin in attesa del primo sbarcoIl porto di Shengjin – foto Ap

Migranti Oggi i primi sedici verranno rinchiusi nei centri in Albania, che la popolazione non voleva

Pubblicato circa 8 ore faEdizione del 16 ottobre 2024

La spiaggia di Shengjin è quel che resta delle vacanze estive, qualche salvagente a forma di anguria, quattro ombrelloni, due bagnanti, e i relitti degli stabilimenti che da giugno a settembre occupano la costa. Al di là del molo i pescatori raccolgono le reti, sono indispettiti da chi, invece, è qui per raccogliere altro: le immagini del porto, in attesa dell’arrivo dei primi 16 migranti a bordo del pattugliatore Libra della Marina Militare italiana.

Il porto è blindato, nessuno può entrare a vedere il centro di primissima accoglienza e identificazione battente bandiera italiana così come il Cpr di Gjiader, dove verranno trasferiti i 16 naufraghi, dieci originari dell’Egitto e sei del Bangladesh, dopo la prima identificazione al porto.

In un clima di attesa che sembra interessare solo gli italiani presenti, la popolazione del luogo fatica a parlare. C’è chi ha paura, chi prova rabbia perché è stato respinto dalla stessa Italia dove era emigrato tempo prima. Non Illir (nome di fantasia). A lui, dice, questo posto è stata strappato via dalle mani. «Vivo qui, in una casa dietro al nuovo centro d’accoglienza, da cinquant’anni», racconta, «quando hanno dismesso la caserma militare ho iniziato a coltivare quel terreno – quello in cui adesso si ergono l’edificio d’accoglienza e quello per il rimpatrio – quando hanno deciso di fare il centro per migranti, nessuno mi ha detto niente. Sono arrabbiato. Amo questo posto, ho girato il mondo dall’Italia, alla Germania, all’Olanda, ma poi sono voluto tornare qui. Adesso non lo riconosco. Meloni – conclude – non è una brava persona».

La casa di Illir è poco distante dal muro alto in quel punto circa cinque metri (è il suo punto più basso) che imponente delimita la struttura di Gjiader. Qui passano contadini, anziani con sacchi pieni di olive, persino un uomo in sedia a rotelle con un cesto di melograni. Passano diritti, un’occhiata veloce e si chiudono in casa.

«Per la gente qui non è facile accettare il nuovo centro, questo è un posto di campagna dove vivono le stesse famiglie da decenni. Questa scelta non è stata nelle mani delle persone del posto, loro hanno potuto solo accettarla a testa bassa», racconta un giovane passante.

Al porto intanto aumenta l’ansia per l’ormai imminente arrivo della nave Libra. Poco distante dai giornalisti in attesa al molo, Petrit lavora il cemento. Parla un italiano quasi perfetto e indicando il mare dice: «Non so cosa pensare delle persone che stanno per arrivare. Ma so che siamo tutti uguali. Io sono stato dieci anni in Italia, sono arrivato anche io senza documenti, poi mi hanno costretto a tornare qui. Questa è una terra povera – continua – noi da qui fuggiamo esattamente come loro dalle loro terre», conclude l’operaio.

Chi arriverà oggi in Albania sa bene da dove è fuggito ma non cosa lo aspetta, l’unica certezza, adesso, è una traversata in mare di circa cinquanta ore per arrivare in una prigione, fuori dall’Europa.

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