Editoriale

Nel nome del padre

Nel nome del padreIl presidente del senato Ignazio La Russa – Ansa

Editoriale Sembrava impossibile fare peggio di Beppe Grillo che due anni fa, volendo anche lui difendere il figlio, aveva già sostenuto che quando una ragazza fa passare del tempo prima di denunciare uno stupro allora certamente è tutto falso

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 luglio 2023

Sembrava impossibile fare peggio di Beppe Grillo che due anni fa, volendo anche lui difendere il figlio, aveva già sostenuto che quando una ragazza fa passare del tempo prima di denunciare uno stupro allora certamente è tutto falso. Sembrava impossibile ma il presidente del senato Ignazio La Russa c’è riuscito, con l’aggravante di parlare dalla seconda carica dello stato. Anzi di scrivere, perché la sua primitiva arringa difensiva papà Ignazio l’ha diffusa ieri in una nota, accanto ad altre agghiaccianti considerazioni. Le ha scritte e ci ha pensato bene.

Per questo a niente valgono la mezza smentita e il dispiacere di essere stato frainteso, peraltro ormai un’abitudine per La Russa. Chiaramente non ha idea di quanto sia grave provare a trasformare in colpevole chi – dopo tutto il tempo che le è necessario per riuscire a farlo – prende parola come vittima. Serve a qualcosa spiegare a La Russa che è proprio perché c’è al mondo, in posizione di comando, gente con la sua testa che denunciare uno stupro è un incubo?

Evidentemente no. Non è della colpevolezza del figlio, da provare, che qui si discute, ma di quella del padre. Quando il presidente del senato dice – scrive – che la ragazza non è credibile perché aveva assunto cocaina (anche questo da provare), non lo sa che nel caso sta indicando una precisa aggravante della violenza? Che specie di avvocato è questo Ignazio, un legale dell’età della pietra?

E quando aggiunge che l’unica cosa che rimprovera al figlio è di aver portato a casa davanti ai suoi occhi una ragazza così, una con la quale non aveva «un rapporto consolidato», che cosa sta suggerendo? Per caso che certe cose il figliolo deve eventualmente farle solo lontano da papà? Lontano da testimoni? Dunque è un cavernicolo consapevole e orgoglioso di esserlo Ignazio La Russa e se ci sarà un processo sarà anche un testimone.

È vero che da un po’ di tempo in qua in politica le cose peggiori si sentono da chi dichiara di parlare «da padre» o «da madre», ma all’assoluzione paterna per direttissima a seguito di interrogatorio nel tinello non eravamo ancora arrivati. La logica di padre padrone La Russa è utile però per comprendere quale sia la concezione della giustizia di questi maestri del diritto. Applicabile anche agli altri casi dell’attualità.

La vicenda Santanchè, cliente anche lei come Leonardo Apache dell’avvocato Ignazio, in fondo è semplice. La ministra sa di essere indagata da molto tempo, da prima di essere chiamata a far parte del governo Meloni. Ma non lo ha detto a Meloni proprio per entrare nel governo. In attesa di essere costretta a prendere una decisione quando le indagini dopo l’estate arriveranno a conclusione, la presidente del Consiglio nasconde il suo imbarazzo – qualcuno dice la sua rabbia – inventando una responsabilità della stampa per aver scritto (e non tre giorni, ma otto mesi fa) quello che Santanché può solo far finta di scoprire adesso.

Anche il caso Delmastro non è difficile. Un giudice a Roma ritiene non sostenibile che la posizione del sottosegretario debba essere archiviata, come chiede il pm, perché diffondendo il contenuto degli atti non era consapevole di violare un segreto, cosa che è provata ed è accaduta. Dunque ci sarà un’udienza e si vedrà. Ma la destra con in prima fila il ministro «liberale» Nordio che sempre strilla perché i giudici sarebbero troppo supini ai pm, tant’è che vuole separargli le carriere, questa volta avrebbe preferito un giudice accondiscendente. Perché si tratta di un amico nei guai.

E allora eccola la teoria della giustizia del più forte, sia il figlio di papà, la ministra o il sottosegretario. Per la quale la presidente del Consiglio sembra disposta a ingaggiare una nuova guerra contro la magistratura. Senza averne alcuna convenienza, anche perché non ha le spalle larghe di Berlusconi.

Se ci finirà dentro non sarà per interesse personale, ma per pulsione autoritaria e per coprire di strepiti l’inconcludenza del ministro della giustizia e della sua maggioranza. Sarà un precipizio, non un viale imboccato con la consapevole arroganza del Cavaliere.

Un precipizio per tutti, persino per la magistratura che quando si è dovuta chiudere in difesa ha fatto cento passi indietro nella cultura delle garanzie. Anche in questo caso, sembrava impossibile fare peggio ma è probabile che ci riusciranno.

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