«Su tutta questa fascia saremo esposti, quindi occhi aperti», ci dice un ex militare israeliano prima di partire verso sud. Indica il lato occidentale del kibbutz di Kfar Aza, uno dei maggiormente colpiti dall’attacco di sabato 7 ottobre. In quell’insediamento sono stati rinvenuti i bambini trucidati e, secondo una stima dell’esercito, almeno 40 degli israeliani residenti sono morti e 60 sono stati rapiti. È uno dei luoghi più vicini alla «barriera» che delimita il territorio israeliano da Gaza ed è per questo che l’accesso è vietato dal giorno dell’assalto. Dato che ora qualche ex-militare vuole che «in occidente vediate cosa ci hanno fatto», ci permettono di andare, scortati da due auto.

La strada è costeggiata da campi e si interrompe in più punti ai check-point, ma le postazioni militari sono comunque scoperte. Interi reparti schierati in bella vista tra un campo coltivato e l’altro. I soldati non temono gli attacchi dal cielo, è evidente. Poco più avanti capiamo perché: una specie di braccio elevatore tiene sollevata un’antenna. È uno dei nodi che formano il complesso sistema di difesa denominato «Cupola di ferro» (Iron dome). Senza queste antenne a scambiare informazioni, i missili terra-aria non saprebbero dove colpire. Funziona perfettamente: si vede la scia nel cielo (o più scie, a seconda dell’attacco) e poi un batuffolo di fumo accompagnato da un boato. Oggi se ne sentono più del solito, o forse dipende dal fatto che siamo a ridosso della linea del fronte. Anche se, per ora, un fronte vero e proprio non esiste. In ogni caso artiglieria e contraerea si tengono molto impegnate e nell’arco di qualche per ben quattro volte gli F-15 israeliani volano a bassa quota. «Tornano da Gaza?» chiediamo, immaginando cosa possano provocare gli ordigni sganciati da un caccia come quello. «Non per forza, magari sono solo in ricognizione», rispondono i militari.

Nei pressi del kibbutz di Saad la strada si interrompe e ci si trova di fronte un grosso cancello carraio con sorveglianza armata. Una volta dentro il paesaggio cambia: da un lato grate (si direbbe elettrificate) e filo spinato, dall’altro macchia mediterranea e casette coloniche più o meno costose. Poi un altro cancello, grande come il primo e si arriva di fronte a Kfar Aza. Qui le grate sono annerite e piegate, segno che c’è stato un tentativo di ingresso. All’interno i segni della battaglia. Muri crivellati di schegge, alcuni tetti perforati dai razzi, auto bruciate e una puzza di cadavere che ti accompagna per buona parte del tragitto tra le case a un piano. La cosa più sconvolgente, tuttavia, è il silenzio. Le porte delle abitazioni sono tutte aperte, dentro il tempo si ferma. In una i ventilatori a soffitto sono ancora accesi, in un’altra il frigorifero semichiuso perde acqua, una terza ha i festoni colorati e alcuni snack per bambini sul tavolo, probabilmente si stava festeggiando un compleanno o qualcosa di simile. Nei corridoi foto di famiglia e ogni tipo di oggetto quotidiano sparso sul pavimento. Una casa, in particolare, è infestata dalle mosche. La puzza di decomposizione è insopportabile. Sul pavimento e sui muri tracce di sangue e in camera da letto un cane immerso in una pozza nera e in una nuvola di insetti, uno degli ex-militari quasi vomita ed è costretto a uscire.

Alla fine, la fascia ovest del briefing. Una piccola postazione di soldati israeliani di guardia presidia una barriera divelta tra la boscaglia. Dritta davanti a noi Gaza. Parte un mortaio, si sente chiaramente il sibilo e corriamo a nasconderci dietro le macchine carbonizzate. Quando il pericolo è scampato una spessa coltre nera si alza dalla città in lontananza: Gaza è stata colpita di nuovo. Lì non c’è nessuna cupola a proteggere dai missili, né di ferro né di nessun altro materiale.