Il 15 luglio scorso Mbengue Nybilo Crepin, la moglie Fati Dosso e la figlia Marie avevano superato la frontiera dalla Libia alla Tunisia. Portavano in cuore la speranza di poter iscrivere finalmente la bambina a scuola e trovare migliori condizioni di vita. Il giorno seguente era rimasto in vita soltanto l’uomo, che gli amici chiamano Pato. Le due donne erano morte nel deserto, dove le autorità tunisine avevano abbandonato la famiglia per costringerla a tornare da dove era venuta.

Sono spirate una accanto all’altra. La loro foto ha fatto il giro del mondo. Senza però far cambiare idea alla premier Giorgia Meloni, impegnata a siglare il memorandum d’intesa con il presidente tunisino Kais Saied.

Lunedì 6 novembre Pato è riuscito ad arrivare in Italia, a Lampedusa, dopo essersi lasciato alle spalle le coste libiche di Zawyia su un barcone partito con altre 24 persone soccorse dalla guardia costiera italiana.

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Qual è la prima cosa che ha pensato toccando terra in Italia?

Di cambiare vita, avere una nuova speranza e ripartire da zero.

Quante volte aveva provato ad attraversare il mare?

Altre cinque. Ogni volta siamo stati arrestati dai guardacoste libici. Ogni volta ci hanno portato in prigione. Le condizioni erano molto difficili. Bisognava pagare per uscire e non era semplice.

Perché ha lasciato il suo paese?

Vivevo nella zona anglofona del Camerun. C’era un gruppo armato secessionista, che poi avrebbe dichiarato l’indipendenza dell’Ambazonia, che voleva arruolarmi per combattere contro lo Stato centrale. Era in corso una crisi politica. Abitavo con mia sorella maggiore. Le hanno chiesto di farmi entrare tra i guerriglieri. Lei si è rifiutata e l’hanno uccisa. Poi hanno bruciato la nostra casa. Non mi è rimasto nessuno e ho cercato rifugio in Nigeria. Siamo nel 2016.

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Conosceva già sua moglie?

No, sono scappato da solo. Dopo qualche mese ho deciso di andare nel Maghreb e mi sono ritrovato in Libia. Lì ho conosciuto Fati e abbiamo avuto una figlia. Il nostro sogno era venire in Italia.

Perché a metà luglio della scorsa estate avete provato a raggiungere la Tunisia?

Volevamo iscrivere Marie, la nostra bambina, a scuola. In Libia non aveva mai avuto la possibilità di studiare, di avere un’educazione. Dei conoscenti ci avevano detto che in Tunisia sarebbe stato possibile. Era il nostro obiettivo principale.

La situazione dei migranti subsahariani in Tunisia è buona?

Non lo so. Non sono riuscito a viverci. Siamo stati lì una sola notte, in un campo di detenzione a Ben Gardane. Dopo aver attraversato la frontiera siamo stati intercettati. Il giorno dopo le autorità tunisine ci hanno abbandonato nel deserto, per farci tornare in Libia.

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Un comportamento criminale.

Esattamente. Ma i migranti non hanno diritto di parola. Nel Maghreb non abbiamo voce in capitolo.

Dopo la morte di sua moglie e di sua figlia cos’è successo?

Sono stato contattato da alcune associazioni e giornalisti. Volevano sapere cosa era accaduto. Ho dato loro tutte le informazioni. Così ho cominciato a ricevere minacce, da uomini a volto coperto. Non volevano parlassi con i giornalisti. Poi il signor David Yambio, dei Refugees in Libya, mi ha aiutato a trovare un rifugio. Mi ha messo in contatto con dei suoi amici che mi hanno ospitato per un po’.

Ha chiesto aiuto all’Unhcr o ad altre organizzazioni umanitarie?

Sì, l’Unhcr mi ha convocato per delle interviste. Ho raccontato la mia storia. Mi hanno registrato e rilasciato una carta. Ogni volta, però, mi dicevano che dovevo pazientare, che serviva tempo per trovare un paese sicuro dove ricollocarmi. Ma non c’era niente di concreto, di certo.

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Ha potuto seppellire sua moglie e sua figlia?

Lo hanno fatto le autorità libiche. Io sono riuscito a visitare la tomba, sono andato a trovarle. Ma in pratica le ho potute rivedere solo in quella terribile foto. È stato un momento orribile. Non ho mai pensato potesse finire così. Fortunatamente ho avuto degli amici intorno che mi hanno sostenuto. Ho pensato di tutto. Ho pensato di suicidarmi.

Se avesse di fronte il governo italiano cosa direbbe?

Sulla Tunisia so troppo poco, ma posso parlare della Libia perché ci ho vissuto quasi sette anni. Al governo italiano, o alle autorità europee, direi di smettere di finanziare i guardacoste o meglio le milizie libiche. Non serve a niente. Sono le stesse milizie che si presentano come passeur. Dopo che intascano il denaro dell’Europa si dedicano al traffico di migranti.

Adesso è in Italia. Qual è il suo sogno?

Ho la passione della pittura. Spero di diventare un grande pittore. È questo il mio sogno.