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Negli Stati uniti la botta all’economia deve ancora arrivare

Negli Stati uniti la botta all’economia deve ancora arrivareNegozio statunitense verso la chiusura – Stevene Senne / Ap

Usa La pandemia ha imposto uno stop di proporzioni storiche, non solo per i lockdown, ma per il calo dei consumi. Con un impatto devastante su redditi e occupazione

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 20 novembre 2020

Ora che le elezioni sono (quasi) passate, ci sono più ragioni per non essere troppo fiduciosi riguardo al futuro. Non quello del mondo – su cui la coltre minacciosa della pandemia si stende mortifera oscurando un’altra e ben più terrificante tragedia, quella del cambiamento climatico – quanto quello degli Stati Uniti e, in particolare, della sua economia. Ha vinto Biden e la prospettiva di un’autocrazia che domina il pianeta si è fatta meno vicina, ma tutti i problemi sono lì e si sono manifestati nel voto. Perché l’economia più ricca della terra – globalmente ricca, ma solo dove l’1 per cento ha in mano tre quarti della ricchezza e tutte le leve del potere – si ritrova in mezzo alla strada, in panne, e non sa dove andare.

L’America è sempre stata l’avanguardia del capitalismo, il laboratorio delle soluzioni progressive, il luogo elettivo di consacrazione dei modelli. L’età dell’oro del capitalismo selvaggio dipinto da Mark Twain con satirico realismo; il New Deal di Roosevelt dopo la grande depressione – molto “americano”, pur fondandosi sulle ipotesi formulate da quel british dandy di John Maynard Keynes – e le politiche di gestione della domanda e del welfare state; la deregulation reaganiana; il neo-liberismo del Washington Consensus vengono tutti da lì, da quella land of opportunities. Eppure, è proprio negli Stati Uniti campioni della globalizzazione de-regolamentata che questa ha prodotto i suoi effetti più netti, tra le economie avanzate.

Perché c’è un motivo se Biden – e i Democratici – non hanno vinto “a valanga”. Se l’America è divisa, si dice, non è perché i due partiti si sono spartiti i voti 51 a 47. Ma perché quei 73 milioni di elettori che hanno scelto Trump e il Gop sono davvero divisi da quei 79 che hanno scelto Biden e i vari Dem in corsa per il Congresso. Divisi politicamente, economicamente, geograficamente. Al di là del meccanismo elettorale, che confonde la lettura dei voti, appare chiaro come non siano solo gli elettori bianchi, non istruiti, della working class, ad avere, di nuovo, scelto l’aspirante autocrate e il suo partito. In decine di contee suburbane e rurali i democratici non hanno sfondato, anzi hanno perso consensi.

Non è vero che la pandemia e la sua gestione fallimentare da parte dell’Amministrazione Trump non hanno influito sul voto. Piuttosto, hanno ridestato il desiderio di uno Stato efficiente e protettivo, di un governo all’altezza, ma solo in una parte dell’elettorato, quello più che più ha pagato il prezzo del contagio e quello più informato e colto, urbano. Ma la pandemia, e il suo mantello ammorbante, hanno permesso a Trump e ai suoi di mascherare, ancora una volta, il loro messaggio. Se nel Gop le élite conservatrici si riconoscono, è però nelle masse, non degli ultimi, ma dei penultimi, che quello trova il grosso dei suoi consensi.

Perché l’America è paese diseguale ed è questa disuguaglianza che alimenta il seguito dei Repubblicani e del loro improbabile leader. Ed è la vastità delle disparità che fa degli Usa un gigante coi piedi d’argilla. La pandemia ha imposto all’economia uno stop di proporzioni storiche, non per i lockdown, ma per il calo dei consumi e la chiusura di centinaia di esercizi, piccoli e medi. Con un impatto devastante su redditi e occupazione. E poi, chi la pandemia ha colpito di più ha votato Biden e non avrebbe comunque votato altrimenti. Ma se dal nadir della pandemia stiamo forse passando ora, quello dell’economia deve ancora arrivare.

Che il famoso “stimolo” venga rimesso in pista o meno farà certo la differenza. E il Congresso emerso dal voto non sarà generoso. Ma quel 40 per cento dei lavoratori a basso salario che hanno perso il lavoro farà fatica a ritrovarlo, e più saranno lasciati a casa, più le cose peggioreranno. Quella massa di 15 milioni di famiglie, per lo più di immigrati spesso nemmeno legali, che vive di lavori precari e irregolari, ancorché in settori “essenziali”. Quelle famiglie che vivono in affitto o con il mutuo, la classe medio-bassa dei sobborghi, bianca, nera, di ogni colore. E i deficit stellari dei bilanci dei 50 Stati, nonché dei comuni delle grandi città (con la minaccia di licenziamento per milioni di impiegati pubblici che là possono essere dimessi da un giorno all’altro). Tutto questo porta l’economia sull’orlo del precipizio, per quanto i big tech possano continuare a fare profitti.

Se intanto Wall Street va per la sua strada, non vuol dire che una vera depressione sia stata scongiurata, né che Biden rimetterà insieme un corpo sociale frantumato e un’economia segnata da un giorno all’altro. Perché se c’è una cosa che The Donald ha fatto emergere è il discontento ora divenuto rabbioso di chi si è sentito solo, dispossessato dalla globalizzazione liberista (senza esserne conscio, per giunta). Certo, oggi puoi comprare più roba a prezzi stracciati, ma averceli i soldi per fare acquisti. «Quando la promessa non è mantenuta, continui a vivere, certo, ma qualcosa ti è stato rubato» (Springsteen). Una società divisa in classi, maschilista, in cui il razzismo di fondo è funzionale alla macchina capitalistica deregolamentata, non sarà messa in discussione dal pensiero liberal che fa presa sulle anime belle istruite ma non vende nelle case dove si guarda Fox News e i mall deserti delle badlands dei sobborghi.

«Ma cos’è questa terra America dove vogliono andare in tanti», cantava Pete Seeger le parole di un immigrato come quelli che anche noi mandammo là. Ora dovrà interrogarsi, per capire cos’è, quest’America, divisa tra l’implosione sociale e una lunga strada davanti che non sa dove la porterà.

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