Budapest schiaccia il freno sull’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia. Tra i parlamenti dei paesi membri dell’alleanza, quelli ungherese e turco sono gli unici a non essersi ancora espressi sul tema. Ieri è iniziato il dibattito parlamentare e dalle informazioni disponibili risulta che la decisione dell’assemblea nazionale ungherese in merito alla ratifica è prevista per il periodo tra il 6 e il 9 marzo. Dal partito governativo Fidesz partono segnali contrari all’adesione che il primo ministro Viktor Orbán avrebbe chiesto di sostenere.

Sul tema si è espressa in un tweet anche la presidente Katalin Novák: «Si tratta di una decisione complessa con gravi conseguenze, quindi è necessaria un’attenta considerazione». Novák ha aggiunto di avere una posizione netta: «Nella situazione attuale l’adesione di Svezia e Finlandia è giustificata».

DI FATTO, però, la maggior parte dei deputati arancioni (il colore del partito governativo) avrebbe di recente obiettato che l’ingresso dei due paesi scandinavi nella Nato porterebbe a una escalation della guerra in Ucraina e che più volte Stoccolma e Helsinki hanno «oltraggiato grossolanamente l’Ungheria e ora chiedono anche un favore».

Parlando pochi giorni fa alla radio pubblica, Orbán aveva detto che alcuni legislatori del Fidesz si mostravano preoccupati pensando ai potenziali rischi geopolitici legati all’estensione di oltre mille chilometri del confine tra Russia e Nato con l’adesione della Finlandia e che chiedevano ulteriori discussioni sull’argomento. Così, secondo il premier, prima di procedere è necessario dar vita a un dibattito serio sulla questione e tener conto della posizione della Turchia. «Se non si trova una soluzione al problema posto da Istanbul, l’allargamento potrebbe fallire», ha precisato.

Budapest frena al momento, a dimostrarlo anche il fatto che alla fine di febbraio il ministro degli Esteri Péter Szijjártó aveva respinto una nota verbale congiunta degli ambasciatori britannico, tedesco e francese che sollecitava una ratifica nel più breve tempo possibile.

Intanto il governo fa mostra di mantenere immutata la sua posizione nei confronti del conflitto in Ucraina e critica le sanzioni contro la Russia che, a suo dire, sono responsabili delle pesanti difficoltà in cui si trova l’economia ungherese. A gennaio, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica (Ksh), il paese ha conosciuto un aumento dei prezzi pari al 25,7%, il più alto in tutta l’Unione. Con questi provvedimenti, secondo Orbán, «l’Ue si è sparata ai polmoni».

Oltre a ciò, l’esecutivo danubiano ha palesato, dalla vigilia delle ostilità, una posizione contraria all’uso della forza da parte “occidentale” contro la Russia: «Non vogliamo una nuova guerra fredda», aveva affermato Szijjártó poco più di un anno fa.

NELL’USUALE CONFERENZA STAMPA annuale dello scorso dicembre Orbán ha ribadito il suo impegno a tenere l’Ungheria fuori dal conflitto anche in futuro precisando «non è la nostra guerra», e ancora: «Siamo per la pace». Sono noti i rapporti stretti tra il governo ungherese e Mosca, legami che hanno molto a che vedere con le ingenti importazioni di energia che il paese effettua dalla Russia, gas e petrolio. Ma è anche sede di investimenti, sempre da parte russa, in ambito nucleare.

Alla fine di agosto l’Ungheria aveva annunciato un nuovo accordo di fornitura extra di gas naturale con la Gazprom: circa 5,8 milioni di metri cubi di gas naturale in più, su base giornaliera, da aggiungersi alle quantità previste dai precedenti contratti firmati dalle parti. Non deve quindi meravigliare l’opposizione di Budapest alle sanzioni che ha permesso all’Ungheria di ottenere una deroga temporanea all’embargo sulle importazioni di petrolio da Mosca.

Ora non resta che attendere il responso del parlamento ungherese sulle «prospettive atlantiche» di Stoccolma e Helsinki.