Questo lunedì sarà l’ultimo giorno prima della fine dell’anno senza nemmeno uno sciopero in Gran Bretagna. Lo si può ufficiosamente definire uno sciopero generale: per l’aumento dei salari, contro i licenziamenti e per migliori condizioni di lavoro. Il governo ha istituito una task force per coordinare le risposte alle agitazioni, tra cui mobilitare l’esercito per guidare le ambulanze, controllare i passaporti alle frontiere e spegnere gli incendi (senza tenere conto che anche solo menzionare una simile decisione ha fatto inferocire i vertici militari). Ed e ormai da giorni al lavoro su un bill legislativo che dovrebbe limitare gli effetti degli scioperi e gli scioperi stessi – ad esempio vietandoli del tutto nel settore sanitario – o introducendo la conferma di livelli minimi di servizio nei giorni di sciopero per evitare la paralisi totale. Una simile legislazione sarebbe un ulteriore passo autoritario da parte di una maggioranza che – soprattutto nel caso della lotta per quel che resta dell’ambiente – ha già colpito al cuore il diritto di manifestare.

Ieri era la volta dei lavoratori delle poste: oltre 115mila lavoratori hanno incrociato le braccia in uno sciopero che andrà avanti irregolarmente per tutto il periodo natalizio: milioni di pacchi dono e cartoline di auguri resteranno a languire nei depositi. Sarà poi la volta del personale paramedico prima di natale, di quello di frontiera, degli insegnanti, dei ferrovieri, questi ultimi già in agitazione da mesi dietro la bandiera della Rmt. E non è solo il settore che ci si ostina quasi ingenuamente a chiamare pubblico. Anche le aziende private vedono astenersi i loro lavoratori: dall’industria agroalimentare agli enti di beneficenza e alle compagnie petrolifere.

Dunque il braccio di ferro mediatico fra governo e sindacati prosegue dopo la brusca interruzione delle trattative chiave, quelle con il personale ferroviario, che non assicurerà i collegamenti fra le varie città del paese in uno dei periodi di massimo uso dei treni.

L’opinione pubblica continua a dividersi fra coloro che sostengono gli scioperi e chi li condanna, questi ultimi amplificati dall’implacabile campagna antisindacale della stampa di centrodestra, con in prima fila il Sun e il Times di Rupert Murdoch, che strillano di una linea della fermezza che dovrebbe salvare la pelle elettorale a un partito conservatore il cui avvitamento verso il basso nei sondaggi non è stato granché scongiurato dall’avvento frenetico (e imbarazzante, era stato sonoramente sconfitto da Liz Truss) dello stesso Sunak.

Alle recenti suppletive di Chester, suo primo test elettorale, i laburisti hanno guadagnato il 14%, un esito in teoria sufficiente, se si votasse oggi, a mandare Keir Starmer a Downing Street. Non che strappi allo stesso Starmer una parola di critica seria verso il bill governativo, per carità: pur definendolo “impraticabile”, si è rifiutato di impegnarsi ad abrogarlo una volta eletto premier.

Recessione, inflazione, disperazione: paragonare questa stagione di lotte all’“inverno dello scontento” che nel 1978/79 finì per travolgere il governo laburista di Jim Callaghan, aprendo le porte al funesto quasi-ventennio thatcheriano, non è del tutto fuori luogo.