L’espressione “striscia di Gaza” è figlia della tragica storia di questi ultimi 76 anni: non ha precedenti in quella dei secoli e dei millenni precedenti, quando Gaza era parte di un crocevia noto come “la via dei Filistei”, collegante l’Egitto con la terra di Canaan.

In questo fazzoletto di terra (“la striscia di Gaza”), il numero di rifugiati palestinesi balzò da 100mila a 230mila a seguito dell’“operazione Yoav”, lanciata dalle forze israeliane a metà ottobre del 1948. Michael Gallant, padre dell’attuale ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, prese parte a quella operazione: chiamò suo figlio Yoav per celebrare l’operazione che, più di ogni altra, modificò gli equilibri demografici nella striscia di Gaza.

Ai nostri giorni, Yoav Gallant e, più in generale, le autorità israeliane, mirano a chiudere il “cerchio della storia”, perseguendo un obiettivo speculare ma inverso. Più nello specifico, intendono assumere il controllo dello “Tzir Filadelfi”, il corridoio tra l’Egitto e la striscia di Gaza. Ciò per controllare i flussi di merci e armi in entrata e uscita, ma anche, se non soprattutto, le “espulsioni volontarie”.

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Tale obiettivo vanta numerosi precedenti, alcuni recenti. L’obiettivo di trasferire i palestinesi da Gaza verso il Sinai è incluso nel “piano Eiland” del 2004: prende il nome da Giora Eiland, l’allora capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano. Eiland propose la cessione da parte dell’Egitto di un territorio circa 5 volte più ampio della striscia di Gaza, con l’obiettivo di assorbire la maggior parte dei palestinesi presenti in essa. Più di recente, il 22 ottobre scorso, lo stesso Eiland ha scritto sul quotidiano Yedioth Ahronot che «Gaza diventerà un luogo dove nessun essere umano potrà esistere», sottolineando che la diffusione di «gravi epidemie nel sud di Gaza avvicineranno la nostra vittoria»”.

Il piano Eiland del 2004 non venne realizzato. L’anno seguente, l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon rimosse 7mila coloni (controllavano il 40% delle terre coltivabili e larga parte delle risorse idriche presenti nella striscia di Gaza), insediandone nelle stesse settimane decine di migliaia negli insediamenti della Cisgiordania.

Il ritiro unilaterale da Gaza rappresentava, tra molto altro, una violazione degli accordi di Oslo e, non a caso, ha contribuito a creare le condizioni strutturali per un aumento della violenza.

Ben prima del piano Eiland e degli aspetti fin qui menzionati, erano stati delineati diversi altri progetti finalizzati all’espulsione dei palestinesi di Gaza.

Nel 1953 – per limitarsi alla fase post-1948 – Egitto, Stati Uniti e United Nations Relief and Works Agency (Unrwa) concordarono un piano per l’espulsione di 12.000 famiglie palestinesi da Gaza verso il Sinai. Nella stessa fase, in data 28 agosto 1953, Ariel Sharon guidò un raid contro Bureij – un campo profughi situato nella parte centrale della striscia di Gaza – uccidendo 43 civili palestinesi.

Gli “Ufficiali Liberi” (Nasser tra loro), saliti quell’anno al potere in Egitto, erano al tempo alle prese con gravi problemi interni e ritenevano che l’esercito egiziano fosse impreparato a fronteggiare quello israeliano. Percepivano inoltre i rifugiati palestinesi come una fonte di instabilità. Lo schema per il trasferimento dei rifugiati venne contrastato dai palestinesi nel momento stesso (maggio 1953) in cui i giornali egiziani iniziarono a far trapelare i dettagli del piano. Quest’ultimo venne abbandonato all’inizio del 1955, a seguito di numerose proteste di massa da parte dei palestinesi stessi, in una fase in cui questi ultimi continuavano a subire i raid israeliani e una dura repressione (oltre a vedersi negata la possibilità di ottenere una cittadinanza) da parte delle autorità egiziane.

Un anno più tardi, l’allora ministro degli esteri israeliano Golda Meir dichiarò che «la striscia di Gaza è parte integrante di Israele», mentre Levi Eshkol, ministro delle finanze, stanziò mezzo milione di dollari per favorire l’“auto-espulsione” da Gaza di duecento famiglie di profughi. Il progetto fu affidato a Ezra Danin (ex capo della sezione araba dello Shai, il braccio di intelligence dell’Haganah), che, sei anni più tardi (1962), propose l’attuazione della “Operation Worker”, finalizzata a spingere i profughi palestinesi a emigrare nella Germania Ovest.

Dopo il 1967, a seguito dell’occupazione di Gaza da parte di Israele, i progetti volti a favorire le “espulsioni volontarie” dei rifugiati di Gaza divennero sempre più concreti e popolari tra le fila delle autorità israeliane. A questo scopo vennero istituiti degli “uffici per l’emigrazione” in diverse parti della striscia di Gaza: all’inizio del 1968, circa 20.000 palestinesi emigrarono verso la Cisgiordania e il Sinai.

Di pari passo con l’aumento delle politiche volte a “sfoltire” la popolazione di Gaza (solo nel 1971, 38.000 rifugiati palestinesi vennero espulsi dalla striscia di Gaza) e a una crescente oppressione strutturale, anche il ruolo della religione divenne più concreto e visibile. Tra il 1967 e il 1987, – l’anno di fondazione di Hamas e due decenni dopo l’inizio dell’occupazione israeliana – il numero delle moschee a Gaza triplicò, passando da 200 a 600.

Settecento anni fa il viaggiatore tangerino Ibn Battuta visitò Gaza e scrisse che «è un luogo di grandi dimensioni e mercati attraenti (…) e non ci sono mura intorno ad essa». Sarà l’eredità umana di Ibn Battuta – e non certo il pluridecennale obiettivo di sfoltire la popolazione di Gaza – quella che, in ultima analisi, porterà pace e sicurezza tanto agli israeliani quanto ai palestinesi.