Il suolo impermeabile porta all’aumento degli allagamenti e delle ondate di calore, provoca la perdita di aree verdi, di biodiversità e dei servizi ecosistemici, con un danno economico che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha stimato in quasi 8 miliardi di euro l’anno per gli ultimi 15 anni. Michele Munafò è il responsabile del rapporto nazionale sul consumo di suolo dell’Ispra e coordina il team di ricerca che rende pubblico il dato relativo a quelli che sono definiti «costi nascosti».

foto Michele Munafò
Michele Munafò

Perché è importante prenderne atto?

È la Commissione europea, con una serie di iniziative di comunicazione, a porre l’accento su un problema che è sottovalutato per varie ragioni, non ultima che si tratta di costi indiretti che però nessuno contabilizza e che noi misuriamo in termini di stock, il capitale che viene meno, e di flussi, gli interessi annui. Ecco, la regolazione del regime idrologico vale almeno 3,3 miliardi di euro all’anno, che rappresenta la quasi totalità della perdita in termini di flussi. La domanda che ci facciamo è: quali sarebbero i benefici, per tutti, misurabili anno dopo anno, se quel suolo fosse stato mantenuto allo stato naturale? Questi «costi nascosti» si ripercuotono in termini di «costi di sostituzione», perché dovremmo pagare per ottenere quello stesso servizio, in termini di interventi, di opere o di manutenzione. Ma se gli investimenti in prevenzione e cura non si fanno, la perdita sarà ancora maggiore.

Questo dato, quindi, non misura gli eventuale danni causati da eventi estremi?

No, gli impatti non sono misurabili in termini generali. Se li considerassimo, per certo il valore sarebbe enormemente più grande.

Perché la politica non sembra tener conto di queste indicazioni, che arrivano da fonte così autorevole?

Da una parte il fatto che questi costi siano nascosti conta parecchio, perché le amministrazioni si muovono sui bilanci e se paga qualcun altro non si pongono il problema, nemmeno se quel qualcun altro siamo tutti noi, la comunità-paese. Dall’altra, c’è una reale sottovalutazione del problema: tra una settimana, si saranno tutti dimenticati anche della Romagna e torneremo alla cosiddetta normalità. Questo ce lo ricordava cinquant’anni fa Antonio Cederna ogni volta che succedeva una frana o un dissesto: gli stessi articoli potrebbero essere scritti oggi.

Siamo di fronte a disastri che toccano le città, ma dove nascono?

Non credo personalmente che i problemi nascano in Appennino, ma nelle Pianure, nei fondovalle e nelle città. E questo per due motivi, che penso siano evidenti: il primo è che abbiamo costruito anche lì dove non avremmo dovuto, in aree inondabili ad esempio, e continuiamo a farlo pur consapevoli che questo non può che portare un aumento del rischio; il secondo è che lì, in Pianura, si è concentrato il maggior degrado del suolo, cioè la riduzione della capacità di tenere l’acqua. Questo non riguarda solo il suolo impermeabilizzato, ma in molti casi tocca anche le superfici agricole, dove la compattazione dei terreni tipica di un’agricoltura intensiva, senza adeguate coperture vegetazionali, non fa che ridurre la capacità del suolo di far infiltrare l’acqua e trattenerla. Se a questo aggiungiamo una situazione che alterna siccità prolungata e grandi piogge, questo non fa che degradare il suolo. Se si costruisce e si impermeabilizza, viene meno la capacità di far fronte a questi eventi sempre più intensi, diminuisce e aggrava la possibilità di un’alluvione.