La guerra entra nelle case russe con un pezzo di carta firmato da un ufficiale dell’esercito che ordina a figli, fratelli, padri e mariti di raggiungere al più presto un centro di reclutamento. A migliaia è già successo.

I video sui social network mostrano gruppi di uomini in Yakutia e in Buryatia, nell’estremo oriente del paese, o a sud, in Cecenia e in Inguscezia, che salutano i familiari e partono per l’Ucraina. A giudicare da quelli, sulla rete ne girano parecchi, si direbbe che la questione riguardi per adesso soprattutto le periferie, e quindi le grandi capitali delle minoranze come Yakutsk, Ulan Ude, Grozny o Magas, ma escluda le regioni in cui russi sono maggioranza.

NON A CASO la Repubblica del Tatarstan è stata la prima a chiudere i confini agli uomini in età da militare per impedire una fuga di massa. Martedì il ministro della Difesa, Sergei Shouigu, aveva parlato di «mobilitazione parziale e progressiva» basata su 300mila uomini fra 18 e 45 anni che hanno prestato servizio in determinati settori delle forzate armate.

Secondo il giornale Novaya Gazeta, ormai considerato fuorilegge in Russia, Shoigu avrebbe ottenuto in realtà il permesso di richiamare un milione di cittadini. Il governo ha smentito la notizia. Ma il sospetto che in Ucraina possano finire uomini senza la minima preparazione a quel che avviene ormai da sette mesi dall’altra parte del confine, al fronte di Donetsk e Lugansk, o lungo la foce del Dnepr, da Kherson a Zaporizhzhia, è sempre più concreta.

Proprio in queste quattro province occupate dai russi comincerà in giornata il referendum sull’integrazione nel territorio russo. L’esito è scontato e l’ex presidente ed ex premier Dmitri Medvedev ha lanciato ieri un nuovo monito all’occidente. «Tutte le nostre armi, anche quelle nucleari, possono essere usate per difendere i nostri nuovi confini», ha scritto sul suo canale Telegram. La linea è la stessa che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, aveva tracciato il giorno prima nel suo discorso alla nazione.

All’Assemblea generale Onu il presidente americano, Joe Biden, ha denunciato apertamente la «minaccia nucleare» che incombe adesso sul conflitto: una guerra di questo tipo, ha detto Biden, «non può essere vinta e non deve mai essere intrapresa». Gli ha risposto il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, secondo cui «l’occidente collettivo è coinvolto in modo diretto nel conflitto».

AL PALAZZO DI VETRO anche il leader ucraino, Volodymyr Zelensky, è tornato a chiedere una «punizione giusta» per i crimini commessi dai russi, a partire dall’esclusione dal Consiglio di Sicurezza, e ha aperto poi a una soluzione diplomatica, purché «vera, onesta e giusta».

Denys Prokopenko, del Battaglione Azov, dopo lo scambio di prigionieri con la Russia (foto Epa)

Gli unici segnali di una possibile trattativa sono legati allo scambio di prigionieri che ha permesso a 215 militari ucraini, fra loro diversi comandanti del Battaglione Azov e una decina di volontari stranieri, di tornare in libertà grazie all’intervento di mediatori sauditi. Secondo gli accordi, quelli dell’Azov resteranno in un paese terzo, probabilmente la Turchia, sino alla fine della guerra. Gli ucraini hanno consegnato ai russi 55 prigionieri. Il più conosciuto è Viktor Medvedchuk, il politico filorusso che Zelensky aveva fatto arrestare alla vigilia dell’invasione con l’accusa di tradimento.

Con la mobilitazione, Putin ha rotto il patto sociale che ha regolato per vent’anni i rapporti con la società russa. Per tutto questo tempo la maggior parte dei cittadini ha volontariamente rinunciato a occuparsi della cosa pubblica, lasciando all’élite putiniana la più completa capacità di decidere che fare del paese. In cambio ha ottenuto due decenni di crescita economica, progressi significativi nella qualità della vita, e, perché no, anche una nuova reputazione sulla scena internazionale. L’opposizione riaffiora oggi perché è necessaria.

OLTRE 1.300 PERSONE sono finite in arresto mercoledì nelle manifestazioni contro la guerra. A decine saranno immediatamente arruolate nell’esercito, come prevedono le leggi in vigore. «Nulla ci impedisce di farlo», ha spiegato il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov. Altre proteste si verificheranno con ogni probabilità nel fine settimana. Le sorti di questi movimenti sono legate all’esito di questa guerra. Ma qualcosa si muove, nonostante gli arresti e le intimidazioni delle autorità.

«La scorsa notte è stata una delle più terribili nella storia del nostro popolo», hanno detto ieri gli attivisti dell’organizzazione Free Buryatia, che da mesi si oppone con forza alla campagna di Putin in Ucraina. Migliaia di giovani avrebbero lasciato il paese attraverso il confine con la Mongolia.

Tanti lo avevano già fatto nei mesi passati. Sono assistiti da una rete di soccorso che permette loro di ottenere un rifugio per qualche settimana, il denaro necessario a sopravvivere, e forse un lavoro. Nessuno sa dire quando torneranno in patria. Oggi in Russia i disertori rischiano dieci anni di carcere.