Tra la persona e il personaggio c’è un legame che è in primo luogo negativo. L’attore può interpretare solo quello che non è. E questo perché il suo ruolo non è quello di vivere ma di far vivere, non quello di sentire ma di far sentire. Il personaggio esiste per noi nel momento in cui l’attore lo fa uscire da sé, dalla propria intimità e lo mette per così dire a nostra disposizione. Monica Vitti è riuscita a portare con successo decine di personaggi sul grande schermo. Ma il caso di Claudia esce dal coro e s’impone come un’eccezione e un punto di svolta nella storia del cinema. Claudia, la donna che Vitti interpreta nell’Avventura, non è un personaggio che Monica Vitti porta sullo schermo quanto piuttosto fa esistere in un senso molto più ampio. Ma è proprio questo essere che nel caso di Claudia fa problema.

Vitti con Antonioni, Getty Images

CHI È CLAUDIA? È solo l’amica di un altro personaggio, Anna (Lea Massari) – figlia d’un uomo facoltoso, fidanzata di un architetto (Gabriele Ferzetti). Claudia diventa la protagonista dell’Avventura solo perché Anna scompare, misteriosamente, durante una vacanza nel Mediterraneo. Ma non la sostituisce. Nel vuoto lasciato da Anna, nasce un personaggio che al tempo stesso è caratterizzato soprattutto dal fatto di non essere nulla di determinato. Claudia non è una moglie, non è un’amante, non ha un lavoro, non la vediamo a casa o in famiglia, non appartiene a un tipo umano o a una classe ben identificata. È una donna. È una persona che può essere assolutamente tutto quello che vuole, senza limiti.
Con L’avventura Monica Vitti è chiamata a dare corpo ad un’idea che fa tutt’uno con il dopoguerra. L’essere umano è profondamente libero. E se per certo è sempre iscritto in un contesto, come un personaggio di un film è sempre in un luogo, in un tempo, ovvero in una certa condizione, questa non determina il suo essere ma gli è solo sempre contingente. La modernità da cui Monica Vitti fa nascere il proprio personaggio è precisamente l’assunzione di questo vuoto, di questa mancanza di essere. È il sapersi un nulla. Non c’è un motivo per essere qui e non c’è nessuno motivo per non esserci. Soprattutto, non c’è nessun dover essere. Cosa resta allora? La voglia. Non il desiderio, che già è un’immagine, una proiezione, un qualcosa. Ma la semplice voglia. Di questo, di quello. Voglia di cercare Anna. Poi di stare con Sandro. Eventualmente di lasciarlo, di ritrovarlo, di fuggire ancora. Tutto il film è condotto dalla semplice volontà dei personaggi. Ogni sequenza è un punto e un principio d’azione assoluto.
Perché Claudia è la donna moderna per eccellenza? Perché è più moderna della studentessa americana Patricia che vende giornali sugli Champs Elysées (Jean Seberg in À bout de souffle di Godard)? O più della scrittrice Lydia (Jean Moreau in La Notte dello stesso Antonioni) o ancora di Charulata – anche lei scrittrice (Madhabi Mukherjee in Charulata di Satyajit Ray).

È CHIARO che in tutti questi personaggi s’annuncia e si precisa un cambiamento nel modo d’essere della donna sul grande schermo. Ma non c’è solo il personaggio. Probabilmente la ragione va cercata in qualcosa che Monica Vitti possedeva, o meglio di cui sapeva alienarsi. Nella sua autobiografia racconta che a casa la chiamavano «Sette gonne», nomignolo che le era stato attribuito per il gioco di mettersi un vestito sopra l’altro. Anche la sua bellezza aveva qualcosa del gioco delle sette gonne. Come un’accumulazione di elementi – i capelli, il viso, gli occhi, la bocca, la voce – che non sembrano completare nessuno stereotipo sociale, etnico o culturale ma al contrario li disfanno in permanenza sotto il nostro sguardo.