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Milano, la banda dei dossier vendeva segreti e bugie

Giovanni Melillo e Marcello Viola alla conferenza stampa in Procura sull'inchiesta della Dda di Milano foto AnsaGiovanni Melillo e Marcello Viola alla conferenza stampa in Procura sull'inchiesta della Dda di Milano – foto Ansa

Il caso L’inchiesta della Dda e della Dna: in quattro ai domiciliari, cinquantuno gli indagati. Spiati politici, industriali e giornalisti. Allarme sui database deboli. Nelle carte degli investigatori Del Vecchio jr, il finanziere Arpe e il manager Pazzali

Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Investigatori privati che rimestano nel torbido, poliziotti infedeli che tirano fuori informazioni dai database, capitani d’impresa che si spiano a vicenda. Sono questi i protagonisti dell’inchiesta condotta da Francesco De Tommasi della Dda di Milano e da Antonello Ardituro dela Dna. Il tema è un classico immortale della cronaca giudiziaria: lo spionaggio industriale. Lo stile riguarda invece una pratica che solo di recente è diventata celebre: la violazione delle banche dati investigative e la compilazione di dossier. In questo caso a scopo di lucro. Il lavoro per mettere tutti i tasselli al loro posto va avanti da due anni e ancora non è finito: la procura, peraltro, aveva chiesto molti più arresti di quelli che poi è effettivamente riuscita ad ottenere.

VENERDÌ POMERIGGIO i carabinieri di Varese hanno eseguito sei misure di custodia cautelare (quattro persone ai domiciliari, un finanziere e un poliziotto sospesi dal servizio per sei mesi) e sequestrato tre agenzie private di intelligence (Mercury Advisor, Equalize e Develope and go), ma gli iscritti nel registro degli indagati sono 51 in totale, tra cui nomi di un certo peso come quelli del figlio del fondatore di Luxottica Leonardo Maria Del Vecchio, del finanziere Matteo Arpe e del presidente della Fondazione Fiera Enrico Pazzali. Nelle 518 pagine firmate il 3 ottobre scorso dal gip di Milano Fabrizio Filice i reati ipotizzati sono diversi: associazione a delinquere, intercettazioni illegali, accesso abusivo a sistema informatico, corruzione e violazione di segreto. L’ipotesi investigativa è che esistesse un’associazione a delinquere composta da quattro persone (Samuele Calamucci, Giulio Cornelli, Massimiliano Camponuovo e Carmine Gallo, quest’ultimo vecchia gloria della polizia milanese ormai in pensione ma, in tutta evidenza, ancora in prima linea) che, grazie alle entrature con due esponenti delle forze dell’ordine (Marco Malerba del commissariato di polizia di Rho e Giuliano Schiano), offriva a chi ne facesse richiesta dossier, intercettazioni, spiate varie. Esisteva anche un tariffario: più le informazioni erano riservate e più alto era il costo. Per i pm Pazzali avrebbe un ruolo fondamentale, in quanto socio di maggioranza di Equalize. Il gip però la vede diversamente e ritiene che, in realtà, Pazzali «non ha alcun dominio sul funzionamento dell’organizzazione».

E IN EFFETTI nelle intercettazioni a parlare sono sempre Calamucci, Cornelli, Camporelli e Gallo. «Tutta Italia inculiamo», dice Calamucci a Cornelli il 30 settembre del 2022. Non sapeva che gli investigatori lo stavano ascoltando e, in maniera molto concitata, racconta di quanto i loro servizi fossero migliori rispetto alla concorrenza proprio in virtù della facilità con cui riuscivano ad accedere alle banche dati strategiche nazionali. Non mancano i momenti stracult, dall’evocazione del metodo di lavoro di Miriam Ponzi (figlia di Tom, celebre investigatore privato di un tempo per fortuna molto passato) al falso report della polizia di New York, in realtà realizzato da Calamucci nel 2018, in cui si dava conto della frequentazione di Claudio Del Vecchio con «il travestito Ralph A. Thompson», «registrato per crimini sessuali» dal Dipartimento di giustizia americano. Non c’era niente di vero, ovviamente, e la manovra serviva solo a gettare fango sopra il fratello di Leonardo Maria Del Vecchio. Il fatto, comunque, spiega molto bene quale sia il terreno su cui si giocano certe partite.

TRA GLI SPIATI, miglialia, c’è di tutto: la Barilla, l’Erg, l’ex presidente del Milan Paolo Scaroni, i giornalisti Giovanni Dragoni del Sole 24 Ore e Giovanni Pons di Repubblica, la nipote di Gianni Agnelli Virginia von Furstenberg, il presidente di Cassa depositi e prestiti, Giovanni Gorno Tempini, Letizia Moratti. La rilevanza delle informazioni estratte è per la verità assai dubbia, spesso e volentieri si tratta di notizie in effetti di pubblico dominio, ma tutto fa brodo nella costruzione di un dossier e più del «cosa» a volte conta il «come». In altre parole è come se per la presunta associazione a delinquere fosse più importante far vedere di poter accedere a certi database rispetto a ciò che poi in effetti poteva venir fuori. L’affare, in ogni caso, è di quelli grossi. Rispetto alle altre due inchieste sugli accessi abusivi ai database (quella della procura di Perugia sul finanziere Pasquale Striano e sull’ex magistrato Antonio Laudati e quella pugliese sull’impiegato di Bisceglie che entrava e usciva dalla banca dati di Intesa San Paolo), l’inchiesta di Milano getta una luce sinistra sul retrobottega del capitalismo italiano, più una palude che un mondo di lustrini e di trionfi.

ALLA CONFERENZA stampa andata in scena ieri per illustrare gli esiti dell’indagine, il capo della Dna Giovanni Melillo ha ribadito per l’ennesima volta quello che per lui sembra il punto centrale di tutte le vicende a base di database e dossier, cioè la debolezza dei sistemi che custodiscono le informazioni. Dalle parti del governo giurano di essere pronti a inasprire le sanzioni per fatti del genere. In realtà la stretta repressiva sul punto c’è già stata qualche mese fa con il ddl cybersecurity, che ha innalzato le pene addirittura fino a 22 anni. Ovviamente sulla prevenzione, unica arma che funzionerebbe, non è stato messo nemmeno un euro.

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