Sunshine and Noir era il titolo di uno dei capitoli di Città di quarzo, il «trattato archeologico sul futuro» che rimane un testo fondamentale di teoria critica dell’urbanesimo capitalista.

Nel noir – da Chandler e James Ellroy – Mike Davis individuava la chiave di lettura per una metropoli contraddittoria per eccellenza – un luogo trasformato in bene di consumo che celava un’anima oscura sotto l’immaginario pilotato da forze di mercato e controllo sociale. Qualcosa di centrale, quindi, nel progetto americano e la sua ineffabile sintesi di violenza e aspirazione.

Partendo da questa giustapposizione di immagine solare e ombre, Davis scavava nel futuro della città, come postulava il sottotitolo, excavating the future in Los Angeles, e nella sua storia «non autorizzata», contrapposta alla mitologia ufficiale.

Quel testo era l’analisi rigorosa della parabola della metropoli nella successione di speculazioni che hanno segnato la sua storia. Dalle originali distese di agrumeti, ai campi di petrolio che avrebbe narrato Upton Sinclair, alla rete ferroviaria come strumento di suddivisione catastale e il business immobiliare, auto referente motore di un boom economico perenne quanto disuguale.

LA CRONACA QUINDI di una metropoli «simbolica», un miraggio solare pattugliato dagli agenti del Lapd, servizio d’ordine degli oligarchi e forza di contenimento del proletariato nero e ispanico, la mano d’opera su cui è stato predicato il successo californiano – dal paniere agricolo al complesso militare industriale del dopoguerra.

La decostruzione di Davis è stata rivoluzionaria nei contenuti e nel metodo, per come ha scritto del confine, suppurante, col Messico, della frammentazione del tessuto cittadino in «bantustan urbani», della suburbia reaganista, della privatizzazione a oltranza degli spazi pubblici e della repressione e l’applicazione inflessibile dell’ordine sociale e razziale nel nome dell’eterno sogno da esaudire.

Davis ha scritto i testi in assoluto più incisivi su questo territorio dove l’ingranaggio del capitale viene ammantato di un immaginario post moderno e lo ha fatto mettendo in campo un’analisi che attinge da Gramsci e Marcuse quanto Susan Faludi o dai leader dei Crips di South Central. E con una scrittura narrativa e documentaria ispirata a Joan Didion quanto all’analisi marxista.

La violenza degli attacchi di cui è stato oggetto in patria – e specialmente nella sua città, dove è stato bollato «odiatore socialista di Los Angeles» – la migliore conferma della validità e dell’attualità dei suoi argomenti.

City of Quartz usciva un anno e mezzo prima delle rivolte di Los Angeles che, nel 1992, avrebbero ancora una volta esposto alla luce dello spietato sole californiano le ombre scure delle contraddizioni nascoste dietro le quinte di cartongesso accuratamente posizionate da scenografi hollywoodiani e nella narrazione dei «booster» e dell’infrastruttura ufficiale.

IL LIBRO LO AVREBBE consacrato fra i maggiori intellettuali americani, lui cresciuto nell’hinterland invisibile della metropoli, a Fontana, scalo ferroviario nell’anonimato dall’Inland Empire, figlio di un macellaio dell’Ohio migrato nella grande transumanza verso la terra promessa degli anni di Furore.

Dopo un’adolescenza da lui stesso descritta come turbolenta e «coatta» (redneck) Davis è autista per la società di autotrasporti dello zio a San Diego e fa consegne di carne per macellerie.

La politicizzazione avverrà in seguito, col movimento per i diritti civili e in seguito con l’unione democratica studentesca all’università dell’Orgeon. La militanza lo porterà a iscriversi al Southern California Communist Party con Angela Davis.

Dopo altri studi alla Ucla, Davis è in Irlanda, terra dei suoi avi, e in Inghilterra, dove dirige la New Left Review, prima di tornare a Los Angeles per lavorare, alla fine degli anni ’80, a City of Quartz.

Nella sua biografia di intellettuale quasi pasoliniano, ci sono le lotte sindacali con i Teamsters, ai tempi in cui la storica union dei camionisti marciava con carabine sotto alle giacche per controbilanciare la potenza di fuoco di sceriffi e crumiri, e i cortei col movimento chicano negli anni ’70.

Nella sua bibliografia, figurano una dozzina di testi, dalla storia militanza a Los Angeles negli anni ’60 (Set The Night on Fire) al peso psichico e iconografico – e sempre politico – dei disastri naturali sull’immaginario californiano (Ecology of Fear – Los Angeles and the imagination of disaster). In quel libro esponeva le buone ragioni per lasciare definitivamente bruciare il quartiere a rischio delle star («letting Malibu Burn») – prefigurando un altro tema di attualità globale al tempo delle catastrofi del mutamento climatico.

«CITTÀ DI QUARZO» ha preso posto sugli scaffali di ogni studioso, di ogni appassionato di Los Angeles, California e di America, accanto a saggi storici e tesi accademici, ma anche vicino ai dvd – da Chinatown a Collateral, classici dell’inesauribile filone di cinema e musica su LA.

Ancora nel 2004, Michael Mann confessava che il suo neo noir irrorato di neon (Collateral) era stato un tentativo di rendere al cinema le idee di City of Quartz.

La sua vita di teoria e pratica radical resta come anello di congiunzione fra movimento progressista e un’idea di militanza che non ha smesso di trasmettere a lettori e studenti, nelle aule o sul campo.

Quello, per esempio, del Nevada Testing Ground, la base per le detonazioni nucleari che era stata destinata a deposito di scorie radioattive.

Lo vidi l’ultima volta, davanti a quei cancelli, con un gruppo di studenti a cui stava impartendo la gioia radicale della contestazione.