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Michael Krüger, spettrogramma umorale, tra capriccio e melanconia

Karl Horst Hödicke, «Scala mobile al Grand Hotel», 1988Karl Horst Hödicke, «Scala mobile al Grand Hotel», 1988

Scrittori tedeschi Impantanati in giornate scandite da una ritualità ostinata, i protagonisti dei racconti di «Il dio dietro la finestra» sono relitti intellettuali di un mondo ormai trascorso: da La Nave di Teseo

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 31 marzo 2024

L’amministratore di una ditta all’ingrosso che, a fine carriera, legge Pascal senza posa e asciuga le lettere che, in una difettosa cassetta della posta, ogni giorno si inzuppano d’acqua; un invalido che, da una finestra sulla strada, osserva con sistematica regolarità i passanti, riconoscendone a occhi chiusi l’andatura e le stramberie; uno scrittore di Monaco a corto di idee, diretto a Innsbruck per rinverdire l’ispirazione e risolvere un passato ingombrante su cui gravano il padre archeologo nazista, morto suicida a Roma, e la madre vedova collerica intenta a dannarne la memoria.

E, ancora, uno scrittore carico di anni e di allori, da cui una giovane editor, sportiva valchiria di nome Dagmar, vuole spremere un ultimo romanzo sul capitalismo in agonia; un autore di cataloghi démodé, messo fuori gioco da un’azienda al galoppo nell’hi-tech, che si dà all’escursionismo sulle Alpi svizzere, incontrando tracce di lupi mentre un sordido uomo dei boschi, mezzo bracconiere e mezzo eremita, gli intona il De profundis di ogni aspirazione creativa. Infine, un ipocondriaco homme de lettres, contornato da una trimurti di sorelle balzane e maniacali, narra lo sfacelo del proprio corpo a un giovane amico, forse più badante che confidente.

Sono questi i protagonisti delle storie scritte da Michael Krüger dieci anni fa per l’editore austriaco Haymon, e ora raccolte in Il dio dietro la finestra, e magistralmente tradotte per La nave di Teseo da Francesca Gabelli (pp. 231, euro 21,00).

I tredici racconti scartano dal binario collaudato, e un po’ cigolante, della Kurzgeschichte, o short story, a costituire, ciascuno, il preludio a un romanzo mai scritto, presente in germe ma trattenuto, volutamente frenato nel suo procedere in indisturbata ampiezza, e invece cristallizzato intorno a singoli personaggi, di cui l’autore staglia, con nitore, bonomie e abnormità, turpitudini e idiosincrasie.

Sacerdoti di sfiatate liturgie, impantanati nelle acque basse di giornate prosaiche e sempre uguali, scandite da una ritualità ostinata, insieme meticolosa e nevrotica, troppo umana e insensata, e proprio perciò variazioni micrologiche di un’esagerata normalità, i personaggi di Krüger sono intellettuali vecchi, non solo all’anagrafe, relitti di un mondo ormai trascorso e nebulizzato in nuovi ritmi e in nuove, assordanti modalità.

Semiserie idiosincrasie

Fuori luogo e fuori tempo, refrattari a ogni urgenza e indisponibili al compromesso, i tragicomici e inattuali protagonisti di questi racconti – mai una donna, tutti uomini di volta in volta scorbutici, scettici, aspri, mercuriali, persino cinici, quasi rifrazioni o moltiplicazioni del medesimo autore che si inquadra attraverso uno specchio deformante – articolano, in un’insistente prima persona singolare, una personalissima, idiosincratica, semiseria Kulturkritik mai dottrinaria, dogmatica o accordata alle cadenze plumbee dell’ideologia ma piuttosto modulata sulla lamentazione ironica, a volte persino bonaria, che nega il progresso senza scadere in una oleografica laudatio temporis acti né mai inclinare a retrograde apologie di un passato aureo e incorrotto.

La filosofia della storia in tono minore, non di rado scanzonato, che emerge dalla prosa di Krüger alterna il Benjamin delle tesi sul concetto di storia al moralismo scettico e sfiduciato di Montaigne in un tono che spesso richiama, con effetti di eco mai grevi, il sound di Thomas Bernhard, la sua tipica aggettivazione assoluta nella gradazione ascendente del negativo, i vari registri dal chiliastico all’apocalittico, i travasi nell’umorismo surreale e nella più sinistra operetta: un esempio su tutti – l’ambiente del racconto «Ospiti a cena» ma anche altre, più fulminee atmosfere, come il francobollo narrativo «Futuro. Una leggenda» o il grandguignolesco banchetto funebre di «Ritorno da Leida», che gettano ponti verso la «cena artistica» a casa Auersberger, con il suo chiacchiericcio mondano e crudele, su cui Bernhard accende i riflettori in «A colpi d’ascia».

Ma i chilometrici monologhi battuti a martello, tipici del fraseggio ipnotico di Bernhard, non si ritrovano nella prosa di Krüger che, invece, smeriglia i periodi con netta, lapidaria parsimonia. Nelle sue pagine non c’è una parola di troppo: le idee fisse e le stravaganze dei vari burberi benefici al centro di queste storie sono raccontate con eleganza trobadorica. Lo stile è sovrano, quasi classico; il periodare asciutto, esatto, mai diviso dall’ironia che però non sbava in pointe.

Un catalogo degli umori

Editore di lungo corso, responsabile per più di vent’anni della blasonata rivista letteraria «Akzente», forse più poeta che prosatore ma non nuovo al racconto, nel Dio dietro la finestra Michael Krüger tenta per la prima volta la via di una raccolta che non è un’infilata di storie staccate ma uno spettrogramma umorale, la variazione di un unico temperamento che, di volta in volta, si potrebbe definire lunatico, ma anche bizzarro, capriccioso, eccentrico, caratteriale. O forse, con un’unica parola che racchiude tutte le sfumature, melanconico.

I misoneisti, gli scettici, i misantropi, i pessimisti, gli annoiati, gli oziosi che dovrebbero scrivere un libro ma preferiscono piantare uva spina, gli «amici della morte» che popolano le pagine di Krüger disegnano una moderna anatomia della malinconia, dove la saggezza si intercala al cinismo e le abitudini quotidiane nelle loro infinite repliche, oscillanti tra gestualità sacerdotale e coazione a ripetere, danno conferma dell’esistenza a dispetto di tutto, ritagliando un ultimo metro quadro su cui caparbiamente piantare i piedi.

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