Versione regionale del più ampio eccezionalismo americano, il cosiddetto Southern Exceptionalism esprime l’idea che il meridione possegga caratteri distintivi (di più, superiori) rispetto al resto della nazione. Nonostante generazioni di storici e studiosi della cultura americana abbiano dimostrato a più riprese e in modo convincente come la superiorità della società del sud sia, per l’appunto, una leggenda legata a doppio filo alla storia politica di quest’area – e in special modo all’indomani della Guerra civile – l’immaginario e il vocabolario a esso legati resistono ostinati in numerosi aspetti della vita pubblica: dai discorsi politici all’iconografia regionale fino all’ambito più impalpabile e sfuggente, e proprio perciò decisivo, di un senso di appartenenza al territorio pressoché totalizzante. La letteratura (e la critica letteraria) non ne escono indenni. Secondo Lewis P. Simpson, per esempio, la letteratura meridionale, sostanzialmente ancorata a una visione pastorale del mondo, esprimeva con forza le aspirazioni di una società organica, e organicamente saldata alla propria terra, unita da un sentimento religioso dell’esistenza, un sentire esplicitamente metafisico e trascendentale, andato distrutto nel Ventesimo secolo da quello che Simpson definiva il «Sud esistenzialista».

Nel passaggio da Dio all’uomo, il meridione avrebbe perso la sua coesione spirituale, trovandosi impantanato in questioni esistenziali sostanzialmente irrisolvibili attraverso una visione immanente del reale.

Ed è proprio la frammentazione di una società che si vorrebbe invece saldamente (quanto irrazionalmente) coesa a fornire la materia principale per il romanzo d’esordio di Michael Bible, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi, pp. 135, € 16,00), splendidamente tradotto nella nostra lingua da Martina Testa. In questo libro tanto breve quanto denso, la comunità di Harmony (toponimo amaramente ironico a fronte della vicenda che accoglie), cittadina del sud, viene sconvolta da una tragedia all’apparenza incomprensibile. Durante una funzione religiosa, un ragazzo di nome Iggy si fa strada lungo la navata della chiesa con una tanica di benzina. Vorrebbe darsi fuoco, ma gli cade un cerino e l’incendio avviluppa l’intero edificio, portando via con sé venticinque innocenti; il ragazzo, invece, scampa miracolosamente al disastro. Da questo suicidio fallito trasformatosi in strage si svolgono, nel tempo, le storie segrete dei suoi protagonisti, narrate con un registro lirico, marcato da una profonda, insanabile malinconia.

Bible è un autore giovane ma già dotato di un pieno controllo della propria voce, e il modo in cui affida ai diversi narratori che si succedono le piccole miserie quotidiane facendole avvolgere di una poesia talvolta maldestra ma sempre efficace ricorda da vicino alcuni dei più grandi scrittori del Sud. È chiara l’influenza di Carson McCullers, altra mesta cantrice della provincia, ma il primo paragone che salta alla mente è con Mentre morivo, uno dei capolavori di William Faulkner. Bible ci introduce, infatti, nel mondo del suo romanzo attraverso una serie di punti di vista che contribuiscono a sottolineare la frammentazione sostanziale di una società ipocritamente unita sotto il segno del divino, ma in realtà cucita insieme a forza e in maniera precaria, con punti di sutura sempre sul punto di spezzarsi. L’innocenza del Sud, il suo carattere prelapsario e l’eccezionalità che ne consegue è, non a caso, il punto di partenza di questo romanzo, la cui apertura è affidata a due affermazioni giudicanti che esulano dalle singole storie raccolte, ricollegandosi ai tentativi dell’intera regione di riscrivere la propria storia, auto-assolvendosi dalle proprie colpe: «Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali».

Bible, tuttavia, sembra intenzionato a affrontare questo dogma culturale con intento apertamente iconoclasta: la storia all’origine delle storie che ci racconta non è quella di un Eden incolpevole. È anzi fatta di fiamme, dolore, morte. La «costante» di cui parla Iggy, in attesa di essere giustiziato, non è tanto un’innocenza perduta quanto un incurabile male di vivere, capace di infettare e distruggere tutto ciò che tocca. Allo stesso modo, la cittadina di Harmony è un nucleo umano dolente, paralizzato dal trauma e incapace di guardare avanti. Ed è il tempo, quindi, il vero protagonista di L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, un tempo che, com’è frequente nella letteratura bianca del Sud, non contiene promesse di un futuro migliore: ma è piuttosto un tempo che divora i suoi figli trascinando tutte le vite di Harmony in un oblio senza conforto né redenzione.

Ma è davvero così? La disperazione intrinseca a questo romanzo è evidente, come lo è il senso di impotenza dei personaggi nel vedere le proprie esistenze trascinate in un buco nero senza ritorno. La scrittura, tuttavia, dona a chi si muove sulla pagina una dignità altrimenti negata. «Presto sarò polvere sotto una lapide e col tempo anche la lapide diventerà polvere e non resterà più nulla», dice Joe verso la fine del romanzo. «Prima che succeda volevo mettere per iscritto certe cose che ho amato e ricordarvi che, per adesso, resisto». Sta qui, probabilmente, nel ricordo e nello spirito di resistenza di un mondo fatalmente ferito, il cuore del romanzo di Bible, che fa della bellezza del linguaggio un antidoto al silenzio della morte.