Gli ultimi dati Istat-Svimez confermano il trend che vede i salari nel Mezzogiorno perdere di potere d’acquisto. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia, ma è ancora più grave nel Sud: dal 2008 al 2022, i salari nel Mezzogiorno hanno perso il 12% di potere reale, mentre nel Centro-Nord la perdita è stata contenuta al 3% , gli occupati con un contratto a termine sono il 22,9% contro il 14 % del Centro-Nord, ed il part-time involontario riguarda circa il 75% dei dipendenti a termine contro meno del 50% nel Centro-Nord. E ancora: i dipendenti con retribuzione lorda oraria inferiore ai 9 euro l’ora sono il 25,1% contro il 15,9% del Centro-Nord. E qui ci fermiamo un attimo perché questi dati vanno approfonditi.

Quando Tv e stampa nazionale dicono “un lavoratore su quattro al Sud è pagato meno di 9 euro l’ora” dicono una cosa parzialmente vera, in quanto la realtà è ben più grave. Infatti, dal calcolo bisogna togliere i lavoratori della Pubblica Amministrazione che nel Mezzogiorno arrivano a 1,4 milioni su un totale di circa 4 milioni di lavoratori dipendenti. Con questa banale sottrazione possiamo dire che nel settore privato un lavoratore su 2,7 , pari al 37 per cento, ha una paga orario inferiore ai 9 euro.

C’è poi da sollevare il pesante velo che copre il lavoro nero nel Sud. Diverse ricerche sul campo ci dicono che si è fortemente ridotto il lavoro nero tout court, vale a dire il lavoratore totalmente clandestino. In molti settori, dall’agricoltura al commercio e all’edilizia, specie le piccole imprese, hanno scelto da anni la strada del lavoro part-time per coprirsi da eventuali controlli. Solo che i lavoratori in questi settori spesso firmano per un contratto di tre-quattro ore giornaliere, su cui vengono regolarmente registrati e assicurati, ma poi di ore ne fanno almeno il doppio e, quando va bene vengono pagati in nero, certamente ad un salario orario nettamente inferiore ai 9 euro. Se domandate ad uno di questi lavoratori perché non denuncia o non lascia, la risposta è sempre la stessa: se denunci non lavori più da nessuna parte, in ogni caso non ci sono condizioni di lavoro alternative.

Chi conosce le dinamiche reali del mercato del lavoro sa perfettamente che gli ispettori del lavoro sono insufficienti, non di rado sono soggetti a corruzione, e nei casi migliori chiudono un occhio, più spesso due, per non comminare sanzioni che metterebbero in crisi le aziende più piccole nei settori tradizionali. Si possono fare le migliori leggi del mondo a difesa di lavoratori, ma se poi non c’è un controllo sulla loro applicazione la realtà non cambia.

E’ una situazione insostenibile per molti giovani e per molte famiglie che devono fare i conti con una continua perdita di potere d’acquisto, da più di un ventennio a questa parte. Garantire un salario minimo orario di 9 ore, inferiore a quello di molte potenze industriali (nella Ue, in Nord America, Giappone) è non solo un atto di civiltà per una Repubblica che si dice fondata sul lavoro, ma ha anche un vantaggio sull’economia del nostro paese, perché incrementa la domanda interna che latita da molto tempo.

Il record raggiunto dalle esportazioni nel 2002 (oltre 500 miliardi di euro!) se è un dato positivo da una parte, dall’altra rende fragile ed esposto alle crisi internazionali la nostra struttura economica.

Sarebbe auspicabile che mentre si introduce il salario minimo di 9 euro orari, si riduca il cuneo fiscale per le piccole imprese nei settori sovra menzionati (agricoltura, piccolo commercio, edilizia), e si rendano realmente operativi, incrementando e qualificando gli addetti, gli Ispettorati del lavoro.

Una drastica riduzione del cuneo fiscale non può essere generalizzata per l’alto costo per le finanze pubbliche, ma potrebbe essere avviata per le piccole imprese, inferiori ai dieci addetti, nei settori a basso valore aggiunto, più esposti alla concorrenza sul costo del lavoro. Insomma, partendo dalla sacrosanta richiesta di un salario minimo si possono modificare i rapporti di forza esistenti nei diversi mercati del lavoro, a vantaggio dei lavoratori e delle piccole imprese, spesso anello debole di una catena che trasferisce il valore aggiunto da chi produce a chi commercializza, per arrivare ai fondi di investimento e alla finanza speculativa.