Lo smog in gran rispolvero in Pianura padana sembra far girare all’indietro le lancette di una storia di cui tanti, da anni, vaticinano un lieto fine, alla luce dei trend di progressiva, anche se troppo lenta, riduzione delle concentrazioni dei maggiori inquinanti atmosferici. Trend che raccolgono i frutti di politiche attivate sul finire del secolo scorso, in cui il settore industriale ha ridotto la propria impronta sulla qualità dell’aria, in virtù di obiettivi imposti dalla normativa comunitaria. Si sono ridotte le emissioni dei siti produttivi e sono migliorati i requisiti ambientali dei prodotti.

È il caso del settore automotive, sebbene qui una grossa fetta di innovazioni sia stata neutralizzata dalla crescita di emissioni dovuta alla lievitazione dei Suv. I miglioramenti fino ad oggi sono però risultati di gran lunga insufficienti a raggiungere qualità dell’aria coerenti con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità.

E sono anche troppo lenti per allontanare lo spettro delle procedure di infrazione che incombono sul nostro paese, che continua ad accogliere, nella pianura del Po, il livello “top” dell’inquinamento in Europa.

Con l’umore sostenuto da dati e grafici tutto sommato consolatori, gli amministratori di Regioni e città si vedono adesso esplodere in mano un’emergenza sanitaria (però prevista) di una gravità che non si vedeva dall’inverno del 2017. In Lombardia le prime, timide misure di limitazione delle attività inquinanti sono state attivate solo dopo che, per molti giorni, gli inquinanti avevano continuato ad accumularsi indisturbati in atmosfera, senza che venisse presa alcuna iniziativa per fronteggiare l’emergenza, a partire da Milano, città in cui i livelli di polveri ultrafini hanno raggiunto picchi 24 volte superiori a quelli massimi raccomandati dall’Oms.

L’attesa della pioggia pare essere l’impegno in cui gli amministratori hanno riposto le maggiori speranze e preghiere.

Pioverà infine, ma passata l’emergenza, resteranno le emissioni, in particolare quelle che fino ad oggi sono state orfane di politiche di riduzione.

Le sfide per la mobilità sostenibile misurano una abissale distanza, tra propositi (talvolta) proclamati e modesti risultati ottenuti: la Pianura padana resta l’area a più elevata intensità di motorizzazione privata d’Europa, le città sono ostaggio della congestione da traffico, la cura del ferro nel trasporto merci resta un miraggio mentre i fianchi delle direttrici autostradali si affollano di grandi generatori di traffico commerciale, sotto forma di piattaforme logistiche in cui entrano ed escono merci, a flusso continuo, a bordo di camion e furgoni.

Sicuramente il settore emissivo più recalcitrante a qualsiasi politica ambientale resta quello dell’allevamento intensivo, che vede concentrarsi nelle stalle padane la gran parte della mandria nazionale, dalle cui deiezioni esalano oltre 200mila tonnellate di ammoniaca all’anno, un formidabile pull factor per l’aumento di concentrazione di polveri sospese.

Quella degli allevamenti intensivi è l’ombra inquietante del Made in Italy nei due prodotti bandiera del nostro export alimentare – Grana Padano e Prosciutto di Parma – rispetto a cui la exit strategy sarebbe quella di produrre meglio, ma meno, per ridurre l’impronta inquinante di decine di milioni di capi allevati nel ristretto catino padano.

Anche qui, non meno che per il futuro delle città, occorre una enorme capacità di visione per intraprendere politiche capaci di invertire un quadro di insostenibilità. Ormai conclamato.

*L’autore è di Legambiente