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Messaggi di pietra nel senese

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Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 31 maggio 2024

Rigosecco. Renellino. Alberaccio. Pantano. Macchiaie. Potrei continuare l’elenco. Si tratta dei nomi di altrettante località del senese a contrassegnare la proda di un bosco, un torrentello, un campo. E di quei luoghi ciascun nome designa un carattere, ne respiri l’«aria», e quasi lo fa balzare agli occhi: vedi la macchia e l’erba lucida dell’acquitrino, la quercia e quel limitato brano di terra sabbiosa dove stenta a nascere un arbusto.

Trascrivo quei nomi scorrendo l’indice di Messaggi di pietra, un volume promosso dall’Istituto Storico della Resistenza Senese (Nuova immagine editrice, 1992) che accoglie fotografie di Marcello Stefanini, con testi di Vittorio Meoni (1922-2017), formatosi nell’antifascismo cattolico a Firenze, torturato dalla banda Carità, partigiano combattente, unico scampato, pur se gravemente ferito, lui, tra i fucilati nell’eccidio di Montemaggio. Diciotto morirono, presso Monteriggioni, alle porte di Siena, il 28 marzo del 1944. Apre uno scritto introduttivo di Bruna Talluri (1923-2001), giovane partigiana in Piemonte, autrice di apprezzati studi filosofici su Bayle, Mandeville, Voltaire, Algarotti, tra gli altri.

Le fotografie di Stefanini, in bianco e nero, sobrie le inquadrature, mostrano quei luoghi così come si presentavano cinquant’anni dopo, nel 1991, trent’anni orsono. Le immagini si susseguono nel libro secondo l’ordine cronologico degli accadimenti che vi occorsero tra il 15 gennaio e il 17 luglio 1944. Meoni le correda di puntuali, asciutti commenti. Si attiene alla stretta cronaca dei fatti senza alcun accento retorico, nel rispetto d’una verità che, quanto più è spoglia di decori aggiunti, tanto più è eloquente. Una «verità» che Meoni ha vissuto e, nel rispetto dei morti (305 nel senese, uccisi in combattimento, massacrati e impiccati senza processo) testimonia.

La natura si rinnova nel corso delle stagioni, cambiano le foglie sugli alberi e passano le nubi in cielo, da un anno all’altro. Sulle lapidi, sul travertino dei cippi, sulle stele di marmo le stagioni hanno lasciato i segni che vi imprime il corso del tempo. Ma i tanti nomi incisi e le date restano.

Accenno qui sommariamente a due ordini di considerazioni relative ai monumenti di civile memoria, riguardo al loro spazio e al loro tempo.

Un elemento che si impone come assoluto (cioè autonomo da tutti gli altri e dunque specifico ed essenziale) è quello della localizzazione. È quello, cioè, dell’estrazione-recinzione- separazione di una porzione di spazio: esattamente il qui e non altrove, il proprio qui. Questo qui insiste in uno spazio assoluto e, appunto per questo, diviene non solo una volta qui, ma per sempre qui. Si può affermare che una volta qui è l’inizio della narrazione, res gestae, dunque della «legenda», dunque dell’epos.

A ben vedere, poi, il per sempre qui si configura come, meramente, il sacro.

Il sacro fa che la permanenza dello spazio – questo qui unico – divenga permanenza nel tempo, un presente eterno (meglio: un eterno presente ovvero la presenza dell’eterno). Così l’estrazione-recinzione-separazione fissa quell’accadimento una volta per sempre, einmal für ewig.

Un secondo elemento costitutivo sta nel contesto, ovvero nel dove. Se il luogo è la casa, la cava, il magazzino, la strada, eccetera, cioè la città, la lapide acquista una sua presenza nel volgere di un tempo quotidiano e, per tanto, in parte risulta diminuita della caratura sacrale che, diversamente, si afferma in un tempo perenne.

È quanto propriamente avviene se il luogo è nel non costruito, in piena natura: la foresta del bosco, il campo dell’albereta, la «montagna», eccetera: cioè il non-urbano. È là dove il cippo concentra il sacro e lo conserva indenne nel rinnovarsi perenne della natura naturans.

Il cippo qui, in questo inabitato luogo, reca una data, il giorno e la stagione. Dunque è possibile tornare nello stesso luogo nello stesso giorno e celebrare e onorare l’accaduto che è perenne, nel rispetto del tempo non lineare, ma ciclico, proprio del sacro.

Nel cippo si custodisce un exemplum. Esso segna la postazione dalla quale non è consentito retrocedere: nel nostro caso quella suprema del morire per.

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