La mannaia del centrodestra dovrebbe iniziare ad abbattersi sul reddito di cittadinanza subito, già dalla prossima legge di bilancio. Per ora non sono previsti interventi sulla platea: l’ipotesi è cancellare il diritto al reddito dopo un solo rifiuto di offerta di lavoro. Inizialmente il Rdc permetteva di respingere tre offerte. Draghi le aveva portate a due grazie a un emendamento della destra sostenuto anche da Pd e governo. Limitare il rifiuto a una sola offerta significa smantellare il potere contrattuale che il Rdc aveva consegnato ai lavoratori rendendoli meno ricattabili. Chi ben comincia è alla metà dell’opera.

QUESTIONE DI INDIRIZZO politico ma anche di conti sonanti. Il piatto piange e la futura premier, che non sbandiera l’agenda Draghi ma la studia e la fa propria, è decisa a evitare ogni passo tanto azzardato da minacciare conflitti con l’Europa. Dunque niente scostamento di bilancio, nessuna misura forte, interventi sulla flat tax e sulle pensioni, se ci saranno, solo col contagocce. Arriverà un nuovo dl sul caro bollette, del tutto identico a quelli varati da Draghi. Nella manovra non si andrà oltre un intervento calibrato sul cuneo fiscale e forse, l’allargamento della flat tax per gli autonomi dall’attuale tetto di 65mila euro di fatturato a 100mila euro. Un contentino per Salvini a prezzo contenuto: un miliardo.

L’ONERE DELLA MANOVRA ricadrà sul governo della destra. Su questo Draghi e il ministro Daniele Franco sono determinati anche se un dialogo intenso, pur senza «manovra a quattro mani», è inevitabile e infatti ieri Franco ha incontrato con la massima discrezione tre rappresentanti dei partiti di maggioranza, Leo per FdI, il forzista Cattaneo e per la Lega Freni. In teoria il Documento programmatico di bilancio dovrebbe arrivare a Bruxelles il 15 ottobre, il che obbligherebbe il governo uscente a firmare la manovra. Ma l’Europa in materia è elastica e ha dato tempo sino «a un mese prima dell’adozione del nuovo testo da parte del Parlamento». La manovra dovrà essere pronta a fine novembre. Il governo Meloni dovrà correre con sul collo il fiato dello spread arrivato ieri oltre i 250 punti.

IL GOVERNO USCENTE, pur senza scrivere la manovra, fisserà i paletti con la Nadef, che dovrebbe essere presentata domani. «A politiche invariate», cioè al netto degli interventi del prossimo governo, la crescita sarà rivista allo 0,7-0,8%, un punto e mezzo in meno rispetto alle previsioni della primavera ed è sempre una stima ottimistica rispetto al -0,1% profetizzato da S&P che è a sua volta roseo se paragonato al -0,7% ipotizzato da Fitch. Il deficit tendenziale, in conseguenza del rallentamento e dell’inflazione, passa dal 3,9 al 5% ed è una mazzata perché sottrae una ventina di miliardi alla disponibilità di cassa.
L’adeguamento delle pensioni all’inflazione costerà altri 8-10 miliardi più del previsto e altri 5 se andranno per il rinnovo del contratto della Pa. Tenendo conto delle spese fisse il conto non andrà sotto i 40 miliardi e si avvicinerà probabilmente ai 50.

IN QUESTA SITUAZIONE di penuria si inseriranno certamente le proposte soprattutto della Lega. Se Giorgia Meloni ha tutto l’interesse nel siglare la pace con le istituzioni italiane ed europee, per Salvini il quadro è opposto. Soprattutto, dopo la mazzata elettorale, dovrà dimostrare subito di essere ancora in piedi. Dunque insisterà su aiuti maggiori per il caro bollette, su un’accelerazione dell’autonomia differenziata e soprattutto su quota 41 per quanto riguarda le pensioni. Per Meloni la draghiana l’esborso è fuori discussione ma qualche intervento dovrà farlo altrimenti, dal primo gennaio, tornerà pienamente in vigore la Fornero e questo né la Lega né l’intera destra possono accettarlo.

NELLA STRATEGIA che la leader di FdI sta cercando di approntare un ruolo centrale è quello del ministro dell’Economia. Ieri si sono rincorse voci su uno spacchettamento del superministero, con le Finanze affidate al tricolore Maurizio Leo. Ma ciò non risolverebbe il quesito Tesoro. Meloni insiste con Fabio Panetta, che però non ha alcuna intenzione di rinunciare alla guida di Bankitalia per un ministero di incerta stabilità. Tra i nomi che circolano in libertà ci sono l’ex ministro Siniscalco e il direttore generale del Tesoro Rivera.

SUBITO DOPO LA DIFFICILE manovra sarà il turno della revisione del Pnrr, di cui ieri Lollobrigida ha discusso con Tajani. Ma sia sul fronte delle cifre che su quello dei nomi la sola cosa quasi certa è che i primi a pagare saranno i percettori del reddito di cittadinanza. Cioè i più deboli.