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Meloni la spunta «Indica il premier chi ha un voto in più»

Meloni la spunta «Indica il premier  chi ha un voto in più»

Ma la leader di Fratelli d’Italia non stravince: avrebbe voluto che il suo nome fosse indicato sulla scheda. Aperto il nodo collegi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 28 luglio 2022

Giorgia Meloni ha ottenuto quel che aveva chiesto invano per mesi: la conferma della regola del 2018 sulla scelta del premier e così, automaticamente, la certezza di essere lei a indicare l’inquilino di palazzo Chigi se il centrodestra vincerà le elezioni.

SALVINI ufficializza, quando il lunghissimo vertice è ancora in corso nella sala dei Longobardi del gruppo leghista alla Camera è ancora in corso: «Squadra compatta e decidono gli italiani. Chi prende un voto in più indica il premier». Ma non è una vittoria piena quella della sorella d’Italia. Ambiva a far indicare subito il suo nome, per blindare la coalizione e certificare che la destra, all’opposto di Letta, si muove nell’ottica del maggioritario e nella prospettiva del bipolarismo. Su quel fronte non ha sfondato. Ciascuno si presenterà con il proprio simbolo e il nome del proprio leader bene in vista. Le liste saranno diverse, né c’era mai stato dubbio, tranne che per gli italiani all’estero, dove la lista sarà unitaria. La formula dell’indicazione, peraltro, non si traduce automaticamente in Meloni.

GIORGIA HA sbloccato la situazione sin qui paralizzata dalla controproposta di Berlusconi, che voleva affidare la scelta del premier all’assemblea degli eletti, contando sul fatto che i suoi parlamentari, sommati a quelli di Salvini, dovrebbero comunque superare quelli tricolori. Ma non è riuscita a imporre la logica del maggioritario e ciò significa che, se il risultato del 25 settembre non sarà tanto netto da rendere impossibile giri di valzer, la situazione resterà comunque aperta.

IL CONCLAVE di generali e ufficiali del centrodestra ha di fronte una lista di problemi foltissima, anche se il nodo del premier e quello della ripartizione delle candidature nei collegi maggioritari sono quelli di gran lunga principali, i soli a giustificare la tensione che circonda l’incontro. I tre leader principali si vedono in anticipo, mettono le basi per un accordo che deve essere raggiunto a tutti i costi e su questo nessuno ha dubbi. Poi arriva il gruppone: La Russa scorta la sorellissima per Fratelli d’Italia, Giorgetti e Calderoli accompagnano Salvini, con Berlusconi ci sono Tajani, Ronzulli, Barelli e Marta Fascina la fidanzata d’Arcore. Ma ci sono anche le schegge centriste: De Poli e Saccone per l’Udc, Coraggio Italia di Brugnaro, che tenterà la sorte correndo da solo, Lupi e Colucci per Noi con l’Italia. Manca Toti, tentato dal salto della quaglia, una improbabile alleanza con Letta.

BERLUSCONI aveva aperto il fuoco sin dal mattino: la candidatura di Giorgia Meloni può spaventare l’elettorato moderato. Non è solo un comodo alibi, almeno in parte i rischi di una candidata che viene dall’estrema destra sono reali anche se proprio ieri, dopo il durissimo attacco di qualche giorno fa, il New York Times è uscito con un pezzo sdrammatizzante, che invita a non temere né la democrazia né l’eventuale vittoria della sovranista. Ma Salvini e Berlusconi nutrono anche timori meno oggettivi e più egoistici: la probabilità che incoronare l’alleata ora inneschi una sorta di effetto traino che concentrerebbe i voti sul suo nome e sulla sua lista. La soluzione è quella delle liste separate, ciascuna con il suo leader ben in vista a fare da richiamo. Una formula che però fa a pugni con il bipolarismo a cui mira la leader di FdI perché solo il bipolarismo fa da scudo al suo punto debole: l’impossibilità, a differenza degli alleati, di giocare anche a centrocampo e non solo sull’ala destra. Una formula, soprattutto, che lascia le mani libere ai soci.

TANTO PIÙ importante diventa quindi il braccio di ferro sui collegi. Giorgia deve ridurre quanto più possibile la libertà di movimento degli alleati evitando che dispongano di truppe esorbitanti. Chiede, in base ai rapporti di forza registrati dai sondaggi, il 50% dei collegi per il suo partito. Va da sé che gli altri preferirebbero una bella divisione perfettamente paritaria. La Lega sposta la discussione sul piano tecnico con una lectio magistralis del professor Calderoli, che in queste cose è insuperabile. In tarda serata il nodo non è ancora sciolto. La soddisfazione, anche per il clima disteso, è unanime e sincera. Ma i coltelli restano a portata di mano per tutti.

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