Serafica, Giorgia Meloni assicura a un giornalista non precisamente ostile come Nicola Porro che lei, troppo impegnata dal diuturno onere della presidenza del Consiglio, non ha fatto campagna elettorale. Quanto a comizi, in effetti, si è limitata a quello di Roma. Ma nelle interviste il volume di fuoco è invece impressionante. Il tema del giorno, la polemica innescata dagli attacchi della Lega al capo dello Stato, arriva in coda alla lunga intervista e la premier dedica al tema meno tempo e minor energia di quanta ne impieghi per polemizzare, a muso durissimo, con Lucia Annunziata.

Liquida il caso in pochissime parole: «Sono molto contenta che Salvini abbia chiarito. Soprattutto il 2 giugno bisogna evitare le polemiche. E a proposito, com’è che alla parata del 2 giugno dell’opposizione non c’era nessuno?». Quel “chiarimento”, l’attestato di massimo rispetto per Mattarella «custode della Costituzione che ripudia la guerra», Salvini e Chigi, in coro, assicurano non essere stato richiesto dalla premier e probabilmente è vero. Non ce n’era bisogno. Il leghista fa il ruspante ma non è un ingenuo. Sapeva da solo che quel passo era necessario. Non tanto per Mattarella quanto proprio per l’alleata, messa nei guai dalle non certo ingenue parole del leghista Borghi più sul premierato che sulle imminenti europee.

La premier cerca di correre ai ripari: «Mi lasci dire che vedo un tentativo di tirare continuamente il presidente nell’agone politico e di raccontare sue presunte divergenze con il governo. Per bloccare la riforma continuano a trincerarsi dietro il capo dello Stato, i cui poteri non sono stati toccati. Non è rispettoso nei suoi confronti». La versione di Giorgia è parecchio addomesticata. Nella sua interpretazione il fronte anti-premierato aveva deciso di usare il ruolo del capo dello Stato quando la destra ancora puntava al semipresidenzialismo ma «quando io, raccogliendo le loro indicazioni, ho deciso di cambiare riforma non hanno fatto in tempo a cambiare strategia».

La tempesta del weekend è stata in buona misura campagna elettorale da tutte le parti. Con qualche preoccupazione più strategica e meno effimera però. Una è appunto il peso che attacchi al presidente possono avere in una campagna referendaria già cominciata, che si preannuncia eterna e nella quale Sergio Mattarella è destinato a essere trasformato nel campo di battaglia, probabilmente senza che la cosa gli faccia alcun piacere. L’altra è l’Europa.

Borghi ieri gongolava: «Ho rimesso al centro la vera questione, che non è essere di destra o di sinistra ma volere più o meno Europa». Meloni è tra quelli che di Europa ne vogliono di meno. A distinguere la sua posizione da quella di Marine Le Pen o dello stesso Salvini è la tattica e sono le esigenze di chi deve guidare un governo in condizioni difficili e non può quindi inimicarsi l’Europa. Ma sugli obiettivi di fondo l’assonanza è totale. Ai sovranisti ringhiosi e conclamati però conviene attaccare a testa bassa. Per la premier e leader dei Conservatori europei è invece necessario adoperare toni accettabili per Bruxelles, Parigi e Berlino.

Antieuropeista la destra? Ma quando mai. Anzi, c’è stato un tempo, quando fu firmato il Trattato di Roma, in cui il Msi era europeista e il Pci contro, «perché allora c’era l’Urss e adesso stanno cercando di sostituirla con un’Europa altrettanto dirigista». Insomma la sfida non è tra chi vuole l’Europa e chi non la vuole ma tra chi vuole il federalismo e chi la confederazione come un tempo De Gaulle, e non era forse europeista il generale?». Insomma, fino a un certo punto, presidente. La distinzione, tradotta, arriva esattamente allo stesso approdo degli amici-nemici Marine e Matteo: Europa solo quando è strettamente necessario, anzi indispensabile.

Di sfuggita la premier dà anche alcune notizie. Tre, per la precisione: Giorgetti non lascerà il Mef, se sarà sconfitta al referendum non si dimetterà, «ho giurato di fare sempre il contrario di Renzi», e sull’assegno unico, se alla fine verrà data ragione alla procedura d’infrazione, il governo rinuncerà all’assegno. La popolarità dell’Unione non se ne gioverebbe.