Giorgia Meloni
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Meloni e le tasse, tra carità, ostilità e Stato minimo

Giorgia Meloni

Il senso di una riforma L’idea dell’epoca di Reagan e Thatcher che «la società non esiste» è parte di una "economia" di benefici fiscali e trasferimenti monetari al mercato e alle privatizzazioni

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 20 marzo 2024

L’affermazione della premier Meloni – «non penso e non dirò mai che le tasse sono bellissime, lo sono le libere donazioni e non i prelievi imposti per legge» – contiene un intreccio concettuale a cui è bene prestare molta attenzione. Da una parte, infatti, vi ritroviamo un’ostilità a un istituto fondamentale della Repubblica democratica – le tasse, appunto – a cui la premier ci ha tristemente abituati, dalle tasse definite «pizzo di stato» alla crescente tolleranza dell’evasione fiscale. Dall’altra vi è esaltata l’attitudine alla beneficenza e alla carità da parte dei ricchi, magari loro stessi evasori, che dovrebbero sopperire al degrado e alla privatizzazione dei servizi pubblici indotto dalle decrescenti risorse fiscali destinate a finanziarli.

Questo intreccio palesa quale angusta nozione abbia la destra della «responsabilità collettiva» che le istituzioni pubbliche dovrebbero esercitare nei confronti dei cittadini.

Il «nazionalismo mercatista» che anima la destra si traduce da una parte in corporativismo (l’evasione fiscale viene tollerata specialmente da parte del proprio elettorato, artigiani, commercianti, partite Iva…), dall’altra in un mix di privatizzazione e di assistenzialismo compassionevole i cui elargitori, meglio se grandi, vanno considerati, essi sì, «bellissimi».

Qui si svela che il sovranismo populistico non cessa di contenere molto liberismo e qui c’è uno snodo cruciale, decisivo sotto il profilo culturale e caratterizzante anche dal punto di vista antropologico: si punta a minare profondamente il senso di responsabilità collettiva che sostiene le politiche pubbliche e che si esprime attraverso le istituzioni collettive.

Non si deve dimenticare che l’ostilità alle tasse, insieme con l’idea che «la società non esiste» e pertanto non esiste la responsabilità collettiva, si sono imposte all’epoca di Thatcher e di Reagan, parte di una supply side economics consistente in benefici fiscali e trasferimenti monetari in favore dell’autoregolazione del mercato, delle privatizzazioni e dello «Stato minimo». Infatti, nessuno credeva che i tagli fiscali del 1981 potessero essere finanziariamente sostenibili (e in effetti non lo furono), ma si consideravano i tagli stessi come mezzi per formare disavanzi tali da affamare il bilancio pubblico (starving the beast e la bestia è l’operatore pubblico). Il tutto nella più classica logica ostile all’esercizio della responsabilità collettiva incarnata dalle istituzioni pubbliche: «Meno tasse, meno regole, meno stato, più mercato», associando l’idea che la tassazione sia intrinsecamente dannosa alla volontà di ridurre al minimo il ruolo degli stati e dei governi lasciando spazi solo a un welfare residuale e alla carità individuale.

Oggi, dunque, va posto con tutta la incisività che merita il problema cruciale del limite sotto il quale la riduzione della tassazione può generare la devastazione dei servizi pubblici e la crisi del welfare e, al tempo stesso, depotenziare l’operatore pubblico nell’esercizio delle sue funzioni strategiche.

Il significato e il ruolo della tassazione non sono valutabili in se stessi, ma si commisurano anche e soprattutto agli effetti redistributivi (per i quali è essenziale la progressività) che essa consente di perseguire, al livello e alla qualità dei servizi di cui una società desidera disporre (i quali, a loro volta, esprimono la qualità dei «legami di cittadinanza» propri di quella stessa società), alla natura del modello di sviluppo che si vuole adottare e allo spazio da farvi ai beni pubblici e collettivi, in primo luogo sanità e istruzione.

L’idea neoliberista che le tasse siano un furto, un esproprio, un «mettere le mani nelle tasche dei cittadini» è un’idea tipicamente di destra, sulla base della quale essa ha legittimato moralmente chi si sente autorizzato ad evaderle. Invece, le tasse vanno considerate un «contributo al bene comune» – parole non solo di Tommaso Padoa Schioppa ma del Catechismo sociale della Chiesa e della nostra Costituzione – perché il mezzo con cui reperire le risorse necessarie a finanziare strade, ferrovie, reti, scuole, ospedali, asili nido, riassetto idrogeologico, riqualificazione dei territori e delle città, Ricerca e Sviluppo e innovazione. Tutte cose per le quali servono diretti interventi strutturali e piani straordinari di investimento pubblico per la creazione di lavoro, tanto più oggi di fronte alle grandi transizioni ecologica, digitale, sociodemografica.
Si tratta di riconoscere nell’operatore pubblico l’interprete della responsabilità collettiva, da esercitarsi congiuntamente alla responsabilità individuale ma per il cui esercizio è essenziale la raccolta per via fiscale di risorse adeguate, e di prendere le distanze dalla visione dello «Stato minimo» che sposta tutto sulla responsabilità individuale e lascia il singolo alla benevolenza della carità e della filantropia, in realtà solo, una volta che le tasse gli siano state decurtate, a sbrogliarsela con le incombenze della vita.

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