Entro il prossimo 10 aprile il governo dovrà varare il nuovo Documento di Economia e finanza (Def) che sarà discusso alla Camera dal 24 aprile. L’esecutivo, per bocca del suo ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti si sta preparando a questa scadenza formale – il Def elenca sempre il mondo dei sogni tristi delle maggioranze di turno prima della legge di bilancio vera e propria – «senza sapere cosa sarà il mondo, l’Europa e l’Italia a fine 2024» . Lo ha detto Giorgetti prima della pausa pasquale. Il ministro ha aggiunto: «Quindi non lo so nemmeno io, non sono un mago. Questo è un anno particolare con tante vicende e dinamiche», a partire dalle elezioni nell’Unione Europea il 9 giugno e negli Usa a novembre. «Nel mondo c’è una instabilità totale che viene dai conflitti e tutto questo non può non avere conseguenze sull’economia reale».

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GIORGETTI sta giorgettizzando. Nel senso che se ne lava le mani, fa finta di essere un passante. E anche un mago, come nel caso dell’Agi. Antonio Angelucci, parlamentare del suo partito, la Lega, potrebbe aggiungere un’agenzia di stampa al già cospicuo gruppo editoriale. Magicamente. In realtà Giorgetti ha snocciolato la sua idea economica coerente con la destra liberista all’italiana: il suo governo, qualora ci sarà la vendita dell’Agi, è interessato a massimizzare il profitto. Così metterà i soldini nel salvadanaio che raccoglierà 20 miliardi di euro in privatizzazioni nei prossimi tre anni. L’Agi darà un modesto contributo (30 milioni?) alla svendita pianificata nell’ultima legge di bilancio. Più cospicua sarà la cessione di una partecipazione alle Poste: 4,4 miliardi. Tra una battuta sul sale, e un’altra sul Superbonus, il giorgettismo è un’idea economica: stato minimo, centralità del mercato, tassazione minima, bastone e carota per i poveri, mano libera alle imprese.

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LA SCANZONATEZZA del giorgettismo è però anche un modo per esorcizzare il nervosismo. Giorgetti sa che «ogni azione che facciamo si cala in un contesto negativo». Lo vediamo dalle stime macroeconomiche. Quelle del Def potrebbero essere come al solito esagerate per sollevare il morale della sua maggioranza. Quest’anno circola la stima del Pil a +1%, mentre Bankitalia lo dà a quasi meno della metà: +0,6%. «Però rispetto alla Germania in recessione è tanta cosa» ha detto Giorgetti. Vedremo se il +0,3% del Pil tedesco stimato quest’anno sarà più vicino a quello italiano che cala inesorabilmente dopo il rimbalzo tecnico post-pandemia del Covid.

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IL NERVOSISMO del governo Meloni & Co. sul rapporto deficit e Pil, altra misura da stimare nel Def, è emerso in maniera platea con il blitz del 26 marzo sul Superbonus al 110%. L’eliminazione di ogni tipo di sconto in fattura e di cessione del credito per tutte le tipologie che ancora lo prevedevano ha creato il panico nelle zone terremotate e ha colpito le onlus. Ma il guaio più grosso per l’esecutivo è che il contatore del deficit del 2023 non si è ancora fermato e potrebbe superare di qualche decimale anche il 7,2% del Pil stimato. Mentre le stime sul disavanzo del 2024 sono ballerine. Soprattutto perché, come l’anno scorso, anche in questo – a giugno – il governo aspetta di sapere dall’Eurostat se i bonus edilizi andranno contabilizzati tutti nell’anno di sostenimento della spesa (come già accaduto per il 2023) o se sarà possibile spalmarli su più anni.

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NON E’ UN DETTAGLIO DA POCO perché il rapporto tra deficit e Pil potrebbe discostarsi dal 4,3% previsto nel quadro programmatico dello scorso autunno. Se per il debito si punta a confermare il 139%, il deficit sembra altissimo per i parametri del «nuovo» patto capestro «di stabilità»: 3%, ma bisogna andare sotto all’1,5%. Se così sarà davvero, altro che lacrime e sangue. Dunque, largo alle trattative. Le ospitate della presidente della commissione Ue Von Der Leyen da Meloni servono a preparare il terreno. La composizione della prossima commissione alla quale Von Der Leyen si è ricandidata, sarà una lotta.

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SI SA CHE IN BALLO c’è una procedura di infrazione contro l’Italia (e la Francia). Che non basterà la salvaguardia di tre anni per rinviare l’austerità rovinosa. Che dai quattro o dai sette anni di trattative che aspettano il nostro paese con la prossima commissione Ue arriveranno «riforme strutturali», cioè neoliberalizzazione della società; tagli alla spesa pubblica tra i 12 e i 23 miliardi all’anno; l’obbligo a un saldo primario pari a 80 miliardi all’anno. Liberismo, austerità e aumento della spesa militare: un cocktail europeo per Meloni in salsa giorgettiana. Sarà servito a chi li seguirà.