«Esistono tanti tipi di migrazione. C’è quella di chi scappa dalla guerra, quella legata alla crisi climatica o a un’autentica disperazione. Invece ho voluto raccontare i giovani africani, categoria che rappresenta il 70% della popolazione del continente, cresciuti in una “dignitosa povertà”. I social, la globalizzazione, e il desiderio legittimo di esplorare il mondo li spinge a lasciare casa e a cercare un futuro migliore» spiega Matteo Garrone a Venezia, in un incontro con la stampa italiana, nel giorno di presentazione di Io capitano. È il primo dei suoi film in concorso al festival dopo l’incrinatura del (prima solido) rapporto con Cannes. Il regista evidenza subito un punto fondamentale: «Noi da giovani volevamo scoprire l’America, e per farlo bastava prendere un aereo. Questi ragazzi vedono i loro coetanei venire in Africa in vacanza, mentre loro per arrivare in Europa devono rischiare la vita, è un’ingiustizia a cui faticano a dare una risposta».

È L’ASPETTO più politico del film di Garrone, insieme allo stile di lavoro su cui si fonda il progetto – il regista non esita a definirlo «un lavoro collettivo». Ha condiviso infatti il compito della sceneggiatura, come già accaduto per Pinocchio, con Massimo Ceccherini – «viene dal popolo, non come me che sono un borghese, ed è puro come i suoi personaggi» – e con Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri. Ma un aiuto importante è arrivato da Kouassi Pli Adama Mamadou, migrante e attivista che ha affrontato sulla propria pelle il terribile viaggio attraverso il deserto e le prigioni libiche per arrivare in Italia.

Matteo Garrone
Noi da giovani volevamo scoprire l’America, e per farlo bastava prendere un aereo. Questi ragazzi per arrivare in Europa devono rischiare la vita, è un’ingiustizia«Dopo Gomorra, Garrone continua a parlare del mondo vero – afferma Mamadou – questo film racconta la storia di ogni singolo migrante, anche di quelli che non ce l’hanno fatta. Spero che un giorno ci si potrà muovere liberamente e che, come ha detto il Presidente Mattarella, vengano ristabiliti regolari canali di ingresso per frenare il traffico di vite umane. Per un europeo ci vogliono circa due mesi per ottenere il visto, da noi sei mesi solo per avere un appuntamento con scarsissime chance di successo. Prima di partire i migranti sanno che è pericoloso, ma c’è sempre la speranza di arrivare e vivere meglio».

Prosegue quindi Garrone: «Dopo aver ascoltato i racconti di chi ha vissuto questa esperienza in prima persona, ho cercato di mettere al servizio di queste storie la mia visione e le mie conoscenze. Avevo l’idea di questo film da molto tempo, da quando diversi anni fa in un centro d’accoglienza un ragazzo di 15 anni mi aveva raccontato di essersi dovuto mettere alla guida del barcone senza averlo mai fatto prima. Un’immagine che mi era rimasta impressa. Poi però avevo accantonato il progetto, soprattutto perché avevo qualche timore nell’entrare in una cultura che non era la mia, non volevo essere l’ennesima persona a speculare sui migranti. Ma poi mi sono convinto del fatto che ciò che resta è il film, e quello è l’importante. Spero che sarà visto dai giovani italiani, è pensato anche per loro, affinché si riconoscano in questi personaggi e magari prendano coscienza dei propri privilegi».

Le ultime battute dell’incontro vertono intorno alla scelta del regista e del produttore Paolo Del Brocco di distribuire il film in lingua originale, francese e wolof, e di non doppiarlo in italiano. Scelta definita «coraggiosa», sicuramente il modo migliore per preservare quella prossimità e per rispettare il vissuto dei giovani Seydou e Moussa, e dei tanti come loro.