Cultura

Matt Black, dolenti appunti di viaggio dalla terra dell’abbandono

Matt Black, dolenti appunti di viaggio dalla terra dell’abbandonoAllensworth, California © 2021 Matt Black

L'intervista Parla il fotografo californiano di cui Contrasto pubblica il reportage «American Geography». Un progetto di indagine per immagini attraverso le zone depresse e dimenticate degli Stati Uniti. Sei anni di viaggio e oltre 150mila chilometri percorsi in 46 Stati. «Essere poveri è visto come un fallimento personale invece che come il risultato di un problema strutturale. Questo libro rappresenta una "resa dei conti" con il sogno americano»

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 7 gennaio 2022

È una sorta di poesia dolorosa, un blues dell’abbandono quello che compone, immagine dopo immagine, il fotografo californiano Matt Black che tra il 2015 e il 2020 ha attraversato gli Stati Uniti da un capo all’altro per tracciare le coordinate di una struggente American Geography: un progetto ora riunito in un splendido volume di Contrasto che raccoglie brevi testi e 97 immagini in bianco e nero (pp. 167, euro 45). Lungo un itinerario che lo ha visto attraversare durante sei anni oltre 46 Stati, dall’estremo sud-ovest del confine con il Messico alle nevi del Maine, Black è riuscito a non superare mai, come spiega lui stesso nel volume, «la soglia della povertà»: in altre parole si è mosso all’interno dei confini delimitati da una linea invisibile definita solo dalla miseria, dal senso di smarrimento e dalla perdita. Dalle «ghost town» che raccontano il passato industriale del Paese attaccato dalla ruggine, alle campagne povere – come quelle in cui è nato e cresciuto lui stesso -, dove una giornata di lavoro vale meno di qualche dollaro, fino alle riserve indiane dove l’emarginazione si affoga nell’alcol o negli oppioidi o alle baraccopoli che sorgono nel centro di Los Angeles, a qualche chilometro dalle strade lussuose o dalle ville di Hollywood. Il risultato è un ritratto collettivo che racconta dell’esistenza senza speranze di milioni di cittadini americani, accomunati, ai quattro angoli del territorio nazionale, dall’appartenenza ad una medesima geografia dell’esclusione. Un’umanità dolente verso cui Black si volge con profonda empatia, raccogliendo, accanto agli scatti di un limpido e accogliente bianco e nero, i segnali rivolti al mondo, come nelle pagine in cui riunisce decine di frammenti di messaggi di richiesta d’aiuto trovati lungo il suo percorso. Documentare tutto ciò, è la profonda convinzione del fotografo, è il primo passo per poter cambiare le cose, per operare la necessaria «resa dei conti di un sogno» che sveli la realtà ai troppi americani che si ostinano a volgere lo sguardo altrove. Eppure mai, lungo il tragitto, Black racconta di persone sconfitte, malgrado le ferite che la vita ha inferto loro, ma parla di «intraprendenza, orgoglio e sopravvivenza», come i sentimenti dominante di quanti ha incontrato e con i quali ha condiviso, per un solo momento come per settimane, la sfida di vivere nella sconvolgente geografia della povertà d’America.

Matt Black

Sei anni di viaggio e oltre centocinquantamila chilometri percorsi attraverso un’America dimenticata e spesso del tutto invisibile: da dove parte il suo interesse verso questa parte del Paese?
Il progetto inizia nel luogo da cui provengo, la Central Valley della California, che è una delle regioni più povere degli Stati Uniti. Ho passato la maggior parte della mia vita adulta impegnato a fotografare e a raccontare la storia della zona in cui sono cresciuto e in cui vivo ancora oggi: perciò questo lavoro rappresenta la continuazione e lo sviluppo di tale ricerca. L’idea di fondo era quella di viaggiare attraverso il Paese per verificare quante altre aree povere e abbandonate come la Central Valley si potessero incontrare. E, se ne avessi trovate abbastanza, pormi insieme ai lettori la domanda: «Cosa significa tutto ciò?».

Nel taccuino di viaggio che accompagna le immagini della sua «American Geography», a Van Horn, in Texas, annota: «Uscito dall’interstatale, camion parcheggiati, aree di sosta deserte, buste di plastica impigliate alle erbacce che ondeggiano al vento come le bandierine americane nei cimiteri dei veterani». Sta celebrando il funerale dell’«american dream»?
L’idea che sta alla base del lavoro, ciò che mi ha spinto ad intraprendere questo lungo viaggio, è il tentativo di convincere gli americani a smetterla di non voler «vedere» fino in fondo se stessi. Nel mio Paese si assiste ad una sorta di inquietante e persistente miopia che fa si che si escludano dal proprio sguardo ampie aree della stessa realtà americana: alcuni segmenti sociali e parti d’America ricevono attenzione, altri no. Ma percorrere il Paese in lungo e in largo, guardarlo dalla «base», produce una visione, e una consapevolezza, molto diverse. La nostra identità è costruita sull’idea stessa dell’esistenza del «sogno americano». Un’idea che resiste perché è ancora ampiamente accettata anche da parte di coloro le cui esistenze smentiscono ogni giorno che qualcosa del genere esista sul serio. Essere poveri in America è ancora in gran parte visto come un fallimento personale, piuttosto che come il risultato di un problema strutturale. L’idea del «sogno» sopravvive perché anche le vittime di questo mito fanno fatica a rifiutarla. Questa è la tragedia umana che è al centro della storia che ho cercato di raccontare.

Uno dei termini che ricorre di più nell’indagine è «città fantasma»: centri un tempo fiorenti e pieni di vita di cui sembra essere rimasto spesso solo lo scheletro. Più che con la povertà sembra di avere a che fare con l’abbandono, con una perdita così profonda da non lasciare quasi alcuna traccia dietro di sé.
Fin dall’inizio, al centro di questo progetto c’era l’idea di documentare una geografia dei luoghi dell’esclusione, le aree del Paese che sono state deliberatamente «lasciate indietro». Nella società americana si è sempre respirato questo senso di impermanenza, di provvisorietà. Un tempo tutto ciò ha assunto la forma dell’espansione verso Ovest, e di quanti ne hanno fatto a vario titolo le spese, ora ha il volto del capitalismo globale. È uno strano modo di relazionarsi con il proprio Paese e le comunità che lo popolano, ma fa parte da sempre della storia americana: luoghi e persone possono essere trattati come usa e getta.

El Paso, Texas © 2021 Matt Black

Lei racconta l’inferno della vita quotidiana nelle aree indiane del South Dakota o per i migranti nelle zone di confine con il Messico, ma non sempre si percepisce se la geografia dell’abbandono che descrive segua anche delle precise «linee del colore» e della razza.
Classe e razza sono difficili da separare in America, ma la povertà che racconto si estende anche al di là di uno di questi elementi, o di entrambi. Il libro mette uno accanto all’altro luoghi e comunità che raramente vengono accomunati, facendo così emergere come le condizioni di fondo, i problemi e la sofferenza siano gli stessi, pur in contesti diversi. Del resto, questo era uno degli obiettivi che mi sono prefisso fin dall’inizio: dimostrare come questo tipo di situazione riguardi molti più americani di quanto si sarebbe portati a credere a prima vista.

Gli appunti che accompagnano le immagini parlano di persone che sopravvivono a stento, spesso prive di tutto, disperate o deluse. Per ogni foto viene da pensare che vi sia stato un prima e un dopo, una relazione che si è stabilita prima di scattare e forse è proseguita in seguito. Cosa ci può dire di questi incontri?
Quasi ogni conversazione è iniziata parlando del luogo da cui provengo e delle ragioni per cui stavo cercando di documentare l’esistenza di altri luoghi simili nel resto dell’America. Perciò, posso dire che non ho mai incontrato particolari difficoltà nell’approccio, né nel dialogare con queste persone. In realtà, spesso, ci sono molti elementi comuni in zone che in superficie sembrano diverse, e in coloro che vivono lì. Questa consapevolezza mi ha accompagnato per tutto il viaggio.

Madawaska, Maine © 2021 Matt Black

Dorothea Lange e Walker Evans, tra gli altri, hanno fissato gli umori e le condizioni di vita di senzatetto, disoccupati, poveri negli anni della Grande depressione. Foto che interrogarono la società americana e quanti potevano intervenire per modificare le cose. Oggi, in un Paese disilluso e dominato dal risentimento che accoglienza trova il suo lavoro?
Penso che soccombere di fronte al cinismo sarebbe la tragedia definitiva. Molte linee interpretative della realtà appaino sfuocate e, malgrado le divisioni che dominano il Paese, le persone possono ancora riflettere al di fuori di ciò che gli viene detto di pensare. In questo credo possa esserci ancora spazio per un terreno comune fatto di consapevolezza, che superi le contrapposizioni in nome della verità: solo che perché questo accada si deve prima di tutto prendere atto delle condizioni in cui vivono una parte dei nostri concittadini.

Cosa significa «tornare a casa» dopo un simile viaggio nella disperazione, nella perdita, nell’abbandono, con la consapevolezza che tutto ciò è solo a poche miglia da dove si vive e che, in senso più ampio, rappresenta il cuore stesso della società americana?
A Filadelfia ho incontrato un uomo che viveva per strada e che mi ha detto: «Potrà anche sembrarti scioccante, ma questa è la mia realtà». C’è molta verità in questa affermazione, e la stessa cosa vale per molti di noi, in diverse zone del Paese. Avere una voce e un mezzo di comunicazione rappresenta sempre un privilegio. Riconoscerlo e usarlo per colmare la distanza che separa gli individui è una delle cose che la fotografia sa fare molto bene.

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