«C’è solo una forma adatta a un racconto», ammoniva Mark Twain fra le pagine della sua Autobiografia, «e se non riesci a trovarla il racconto non si fa narrare»: lo scriveva a proposito delle Memorie della vita di Jeanne d’Arc, oggi riproposte dall’editore Mattioli 1885 (a cura di Livio Crescenzi, pp. 537, € 18,00): una biofiction (o romanzo biografico) che costò a Twain «dodici anni di preparazione» e almeno «sei partenze sbagliate» prima di approdare alla «via giusta». Ma perché il genio umoristico di Twain si riversò con tanto accanimento sulla tragica epopea spirituale di Giovanna d’Arco? E qual è stata la forma scelta per rappresentare il martirio della santa-guerriera, condannata al rogo con l’accusa di stregoneria dopo aver tentato di liberare la Francia dall’invasore inglese?

Questa nuova edizione delle Memorie include il saggio Santa Giovanna, dove è lo stesso Twain a spiegarci che la personalità di Jeanne d’Arc resta un «Enigma» senza pari negli annali della storia e dell’«invenzione narrativa», destinato ad agire sul romanziere come una sfida. Perché a differenza di quanto accade per tutti gli altri «geni», non esiste fattore ambientale o educativo in grado di giustificare il portento di una contadina analfabeta che a soli diciassette anni, sotto l’impulso di mistiche visioni, convinse il re Carlo VII a concederle il comando di un intero esercito. Per gli «artisti» che intendono far capire «com’era Jeanne», non c’è dunque altra scelta: devono riportare soltanto «quello che fece», senza spingersi oltre.

Non c’è allora da stupirsi se Twain decide di affidare la narrazione delle Memorie al segretario personale di Jeanne, l’immaginario Louis de Conte. È la via «giusta»: con il suo tono familiare, a metà strada fra il popolaresco e l’istruito, de Conte si presenta nel ruolo del testimone d’eccezione, che da una parte si rivolge ai pronipoti come per raccontare una fiaba dei tempi andati, ma dall’altra tiene Jeanne a distanza col rigore di uno scrupoloso biografo. Invece di introdursi nei pensieri della giovane visionaria, preclusi a tutti per ragioni di verosimiglianza, il segretario registra dall’esterno le sue passate imprese, alternando la cronaca e i commenti ad ampie scene di dialogo, funzionali a un sotterraneo progetto di teatralizzazione. L’intera vita di Jeanne viene così trasformata in uno «spettacolo» corale di voci, dove le battute di comprimari e antagonisti intervengono a sollecitare il contrattacco di un’integerrima vedette.

Nel dramma La pulzella d’Orleans, Schiller aveva rappresentato Giovanna d’Arco come una romantica e isolata amazzone. Twain, al contrario, fa di Jeanne una virtuosa paladina del discorso quotidiano, che conquista i lettori non tanto per la sua incrollabile purezza di spirito, quanto per la sua innata abilità nel combattere i nemici attraverso la parola. Prima di diventare la vergine indomita che si avventa ad espugnare le piazzeforti di Orleans e Parigi, Jeanne è innanzitutto una «bambina» prodigio, capace di sgominare l’ipocrisia di prelati, dignitari e inquisitori con la logica disarmante delle sue argomentazioni. Le dispute dell’inesperta campagnola a favore della propria causa possono essere considerate le sue più decisive battaglie. Attraverso questo prezioso strumento di contrasto, il narratore riesce a puntare i riflettori sulle bassezze e i sotterfugi di una società corrotta, che si profila alle spalle della protagonista come un infido teatro della menzogna.

Attorno a Jeanne, tutti cospirano, dissimulano e ingannano. Se i soldati dell’esercito di Francia non esitano a mistificare la storia del loro valoroso generale per guadagnarsi un quarto d’ora di gloria sulla scena, i cortigiani di Carlo VII e i dottori della Chiesa si ingegnano con ogni mezzo per ostacolare i progetti di Jeanne e architettare «trappole» che mettano in ridicolo le sue improbabili aspirazioni. Da una parte all’altra del romanzo, la purezza si ritrova sotto assedio, braccata e indotta a commettere ingenuità o passi falsi. Quando Jeanne non viene tormentata dall’invidia e dal sospetto delle autorità ecclesiastiche o statali, a intralciarla sopraggiunge il delirio pubblico, che si abbatte sui suoi spostamenti come una «tempesta» o un’«onda» mediatica. Finché il teatro della menzogna non si richiude con il suo implacabile meccanismo a stritolare le virtù della santa, rendendola martire di un sistema in cui anche la più nobile avventura rischia di essere stravolta o sepolta da una risata dissacratoria.

Si capisce allora perché le osservazioni del narratore puntino in più di un caso a denunciare i principali mentitori del dramma e le differenti conseguenze dello loro bugie. Se infatti ascoltiamo le divaganti esibizioni da taverna del «Paladino» portastendardo di Jeanne, dovremo ammettere che le sue smargiassate, pur colpevoli di ingigantire le imprese militari, si riducono a suscitare il plauso degli increduli avventori. Ben più temibile è invece il risultato delle macchinazioni del vescovo Cauchon, artefice dell’accusa di stregoneria, che nei suoi interrogatori giudiziari si impossessa delle parole di Jeanne e mette a verbale falsità mai pronunciate, confondendo la portavoce della volontà divina con un’incantatrice emissaria del diavolo. De Conte non perde l’occasione per ribadire l’iniquità di una simile procedura di ribaltamento del vero, che sembra proporsi ai lettori, a conclusione del romanzo, come supremo emblema di perversione della parola. Ma chi ci garantisce che il narratore delle Memorie riesca per parte sua a immunizzarsi dalle trappole della finzione nel momento in cui riproduce i discorsi di Jeanne?

«Una persona che per abitudine dica sempre la verità – ha dichiarato Twain nella conferenza Sul decadimento dell’arte di mentire – è semplicemente una creatura impossibile; non esiste e non è mai esistita». Anche de Conte non può sottrarsi a questa regola generale. Nonostante si impegni a mettere in scena solo le conversazioni a cui ha potuto presenziare, il segretario resta un testimone schierato, che si propone di agire contro le invenzioni dei detrattori per difendere la memoria e la «grandezza» di Jeanne. I suoi commenti, le sue divagazioni, le sue continue allocuzioni all’uditorio non lo preservano dalla teatralità del Paladino suo rivale, e anche se restano distanti dalle falsificazioni di Cauchon lasciano trasparire, sotto la maschera del biografo, la divisa del bardo cantastorie, intento a edificare una dissimulata e fiabesca agiografia.

Nella prefazione alla pièce Santa Giovanna, George Bernard Shaw accusava Twain di aver ritratto Giovanna d’Arco nei panni di una «impeccabile maestrina americana» dell’Ottocento, senza nessuna comprensione per la «cornice» cristiana e medievale del dramma. Il giudizio coglie in parte nel segno. E tuttavia è proprio grazie a questo intenzionale misunderstanding che le Memorie superano i limiti del romanzo biografico, per tradursi in una parabola sull’umana e universale incapacità di raccontare il vero.